Nel 1989, l’anno in cui avvenne la violenta repressione di Piazza Tienanmen, Mo Yan pubblicò questo romanzo che si differenzia notevolmente da quella che sarà la sua successiva produzione.
Strutturato in tredici capitoli, il libro porta dentro di sé eredità plurime: echi di Bulgakov, di Gogol, di Garcia Marquez sono facilmente rintracciabili all'interno dell'articolato tessuto narrativo.
I tredici passi cova nel suo seno i germi di una nuova stagione letteraria, programmatica e sperimentale, che segna di fatto il superamento delle ferree regole imposte dal realismo di matrice socialista, sistema il cui principale obiettivo era quello di produrre storie a carattere propagandistico.
Il libro comincia con l’immagine di un narratore, rinchiuso nella gabbia di uno zoo, intento a divorare gessetti colorati ed a raccontare storie contraddistinte da un inarrestabile profluvio linguistico.
Fang, insegnante di fisica, muore nel corso di una lezione. Da lì a poco, inspiegabilmente, resusciterà nella cella frigorifera delle pompe funebri presso cui lavora Li, moglie del suo collega Zhang. Il misterioso evento rappresenta un grosso problema per i dirigenti scolastici, in quanto la morte del professor Fang sarebbe utilissima al fine di sensibilizzare le autorità sul pessimo stato delle scuole cinesi. A questo punto Li, maga del maquillage e della chirurgia plastica, decide – come in Face off di John Woo - di scambiare le facce di Fang e Zhang, affinché l’uno sia in grado di tornare ad insegnare e l’altro possa tentare l’avventura nel mondo del commercio.
I tredici passi rappresenta - al pari di Il paese dell’alcool - una delle opere più audaci di uno scrittore abituato a coniugare il realismo magico di stampo sudamericano con il romanzo sociale, venato di una pungente satira politica.
Caratterizzato da un vero e proprio vortice verbale, che disperde e ricongiunge i diversi livelli della narrazione, è contraddistinto da un continuo passaggio fra la prima, la seconda e la terza persona, da momenti onirici e da altri di timbro esageratamente granguignolesco.
Non sarà sicuramente ricordato come il miglior romanzo di Mo Yan – uno dei più meritevoli premi Nobel dell’ultimo trentennio – ma è un’opera che va sicuramente letta ed apprezzata come punto di “rottura” tra la letteratura cinese tradizionale e tutto ciò che viene dopo, ovvero un’apertura progressiva nei confronti delle istanze occidentali che, negli anni successivi, influenzeranno altri scrittori asiatici di talento.
Consigliato a: coloro che vogliono affrontare un’opera non facile ma contraddistinta da una narrazione audace e vorticosa ed a chi è interessato ad assistere ad un’originale satira di un paese desideroso di crescita e libertà ma ingabbiato nelle pastoie di un sistema autoritario.