"Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che pur vedendo, non vedono". Queste sono le parole del medico – uno dei protagonisti della vicenda – che riassumono in un’unica frase il senso della storia. Una storia tragica, catastrofica, angosciante, terrorizzante ma che arriva ad aprirsi, nelle pagine conclusive, ad un barlume di speranza.
La trama è assolutamente geniale. Siamo in un paese non meglio specificato: un'improvvisa quanto inattesa epidemia di cecità colpisce la popolazione. Le autorità provano ad arginare il fenomeno, rinchiudendo i primi contagiati in isolamento. Le drastiche misure adottate non servono però a circoscrivere l’infezione che dilaga inesorabilmente, in un’escalation di terrore che trabocca a poco a poco fino ad invadere l’intero paese.
Mentre procedevo nella lettura di questo romanzo, lasciandomi completamente avvolgere dalle spire della vicenda, ho pensato quasi immediatamente ad un altro libro: Il signore delle mosche di William Golding.
Sì, perché i punti di contatto tra le due vicende sono notevoli. In entrambe le storie, un gruppo di persone – là i ragazzini, qui i ciechi – si trovano segregate in un luogo da cui è impossibile evadere e, in entrambe le situazioni, si sviluppa una lotta aspra e crudele in cui il principio darwiniano della “sopravvivenza del più forte” trova una concreta applicazione. In questo terribile contesto ogni parvenza di umanità pare rapidamente dissolversi, lasciando ogni essere in balia di se stesso, pronto a sfogare la sua natura atavica ed animale.
Al di là di tutto, quest'opera costituisce una straordinaria metafora della società contemporanea, contaminata dall’indifferenza e dalla totale mancanza di solidarietà verso il prossimo. Perché la vera cecità, alla fine dei conti, non è quella fisica: molto più gravi sono la cecità del cuore e l’offuscamento della ragione, che disvelano un’aridità dei sentimenti ed un buio dell'animo difficilmente colmabili.
Raccontare una storia come questa non era per niente facile: il rischio di sprofondare in dialettiche compassionevoli nei confronti dei disabili è tutt’altro che peregrino. Saramago, da grande narratore, evita comunque gli scogli di un pietismo di maniera e va ben oltre, affermando – in sostanza - che non è sufficiente essere disabili per essere onesti e virtuosi: nel mondo popolato da ciechi, infatti, i “ciechi cattivi” si distinguono ben presto da quelli moralmente ineccepibili.
Lo stile di Saramago è caratteristico: duro, avvolgente e a tratti disorientante, con uno sviluppo della punteggiatura piuttosto particolare (per non dire unico). I protagonisti del romanzo sono privi di nome: durante l’arco della storia li identifichiamo come “il medico”, “la moglie del medico”, “la ragazza con gli occhiali scuri”, “il vecchio dalla benda nera”.
Nonostante tutto, riusciamo ad affezionarci a loro ed a condividere – seppur da distante – le loro vicissitudini. Come se li conoscessimo davvero.
Consigliato a: chiunque ami la grande letteratura, capace di trasmettere emozioni ed in grado di raccontare il presente in maniera dura ed impietosa, ed a tutti coloro che vogliono affrontare uno degli scrittori chiave della letteratura europea di fine Novecento.
Voto: 8,5/10
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