martedì 25 febbraio 2020

Il sovrano delle ombre, Javier Cercas

Javier Cercas è uno scrittore di enorme talento che ha scelto di dedicare impegno ed attenzione alla storia spagnola del Novecento. Come in Soldati di Salamina, in questo romanzo l’obiettivo punta sulla Guerra Civile: una tragedia collettiva consumatasi tra il 1936 ed il 1939 e le cui ferite sono ancora dolorosamente aperte.
Nello specifico, l'autore ha tratteggiato una vicenda umana – quella di un giovane militante della Falange che a soli 19 anni perse la vita in battaglia – che in realtà sembra la concreta rappresentazione di tante altre non troppo dissimili. In questo passaggio dal microcosmo individuale a quello nazionale (e, perché no?, universale), si svolge un'analisi puntuale e precisa che riguarda, in particolare, il peso delle scelte personali ed il tentativo di separare il grano della verità dal loglio della menzogna.

Al centro della vicenda, per l’appunto, è posta la breve esistenza di Manuel Mena... che altri non era che il prozio materno di Javier Cercas stesso. Il giovane si arruolò nell'esercito di Franco all'inizio del conflitto civile e morì, dopo due anni, nel corso della battaglia dell’Ebro. Quel ragazzo, purtroppo, non avrebbe mai saputo di essersi battuto per una causa ingiusta e di aver perso la vita dal lato sbagliato della barricata.

Javier Cercas racconta la vicenda tragica di un suo antenato prossimo – un brillante studente divenuto soldato - unendo la precisione dello storico alle indiscutibili doti letterarie. Ne scaturisce un’indagine allo stesso tempo individuale e collettiva, che si trasforma pian piano in un’opera sulla guerra, scritta da un autore che alla guerra si è sempre mostrato profondamente contrario. 
Lo scrittore spagnolo serve al lettore una serie di domande che, al termine del libro, non otterranno una risposta nitida ed insindacabile. Più che fornire soluzioni a buon mercato, a Cercas interessa soprattutto proporre spunti validi al punto da spingere i fruitori del romanzo ad una intensa e ponderata riflessione.
La comprensione del passato, però, non rappresenta un processo meramente intellettuale:  l’autore sembra volerci dire che una “pacificazione” (intesa nel senso più ampio del termine: con i propri antenati, col proprio paese ma anche con se stessi) è sempre possibile… ma deve avvenire attraverso un percorso come quello da lui compiuto sulle tracce del povero Manuel Mena.


Consigliato a: coloro che apprezzano i libri-verità, a metà strada tra l’indagine storica e la docu-fiction, in cui le vicende di un individuo vengono utilizzate per raccontare la storia di una nazione, ed a chiunque voglia lanciare lo sguardo all'interno della Spagna del primo Novecento e del conflitto che l’ha dilaniata. 


Voto: 7,5/10


sabato 22 febbraio 2020

La morte necessaria di Lewis Winter, Malcolm Mackay



La morte necessaria di Lewis Winter, primo romanzo della Trilogia di Glasgow, è un debutto letterario straordinariamente originale ed efficace. 
Pur raccontando la storia di un omicidio, riesce a distinguersi dalla maggioranza degli altri prodotti presenti sul mercato editoriale: la trama, infatti, non prevede la ricerca di un assassino sconosciuto, un'indagine serrata ovvero una corsa contro il tempo per evitare il peggio; si aggiunga a tutto ciò che la figura del poliziotto/investigatore non viene introdotta fino alla metà circa del libro. La genialità dell'autore sta invece nell'aver scelto come protagonista un sicario di ventinove anni, attorno a cui ruota l'intera vicenda.

Calum MacLean è un giovane killer free-lance che ha l'opportunità di scegliere, di volta in volta, quali incarichi accettare e quali rifiutare. Quando John Young - braccio destro di Peter Jamieson, uno dei più grandi boss criminali di Glasgow - gli chiede di far fuori Lewis Winter, un piccolo trafficante di droga, lui accetta l'incarico senza troppe esitazioni.
In realtà Lewis, da qualche tempo, sta tentando di far espandere il suo giro d'affari e risulta evidente come dietro la sua figura si celi qualcuno dotato di maggior potere. Secondo Jamieson è dunque giunto il momento di inviare un messaggio forte e chiaro. Calum dovrà occuparsi di tutto attraverso un'accurata pianificazione... anche se sopprimere un altro essere umano non è una cosa da niente e può comportare conseguenze imprevedibili.

La storia di un sicario che svolge il suo "lavoro sporco", con gli effetti a catena che ne derivano, viene raccontata in uno stile così secco e laconico da far volare via le pagine tra le dita. Mackay ha l'indubbio talento di riuscire ad afferrare il lettore per la gola, immergendolo senza alcuna pietà negli inferi del crimine organizzato.
La città di Glasgow, teatro della vicenda, mostra ad ogni pagina il suo aspetto ipnotico e surreale; ne scaturisce un quadro mesto, desolante, ma spaventosamente plausibile del sottobosco criminale scozzese: una sorta di pozzanghera maleodorante e periferica in cui sguazzano piccoli e grandi criminali, prostitute e poliziotti, tossici ed avvocati ambigui.
Mackay rappresenta una voce nuova ed importante all'interno del cosiddetto tartan-noir: un movimento che ha avuto i suoi grandi alfieri nei sommi William McIlvanney e Ian Rankin e che continua a dimostrarsi un'inesauribile fucina di talenti. Ma risulta debitore soprattutto nei confronti di autori statunitensi come Elmore Leonard - soprattutto per la capacità di disegnare i suoi personaggi - oltre, ovviamente, ai classici del genere come Jim Thompson, Raymond Chandler e Dashiell Hammett. 
La scrittura è essenziale ed incisiva; le frasi sono brevi e semplici, con uno stile "staccato" in cui non si riscontra alcunché di inutile o riempitivo: solo le ossa nude del racconto, che attanaglia il lettore e lo trascina a bordo di un treno lanciato ad alta velocità nella notte più nera. 


Consigliato a: coloro che vogliono fare la conoscenza di un talento emergente del noir contemporaneo ed a chiunque apprezza le storie "nere che più nere non si può", scritte con uno stile adrenalinico e tranciante come un proiettile in corsa.


Voto: 7,5/10



giovedì 20 febbraio 2020

Norwegian blues, Levi Henriksen



Che dire di Iperborea? La casa editrice milanese, specializzata in letteratura del Nord Europa, non finisce più di stupire: continua a farci conoscere opere straordinarie, capaci di colpire la mente ed il cuore, lasciando un segno indelebile nell'anima di coloro che hanno avuto la fortuna di affrontarle.
Norwegian blues è uno di quei romanzi - ahimè sempre più rari - che possiedono la capacità di conquistare il lettore pagina dopo pagina.
Con l'andamento lento di un blues, puntando su una narrazione dall'immediatezza commovente, ci propone un coinvolgente ritratto della Norvegia rurale che è al tempo stesso un appassionato inno alla Musica (la "M" maiuscola è d'obbligo) di cui lo scrittore si dimostra essere un ottimo conoscitore.

Jim Gystad è produttore discografico stanco ed annoiato, che vive un momento di profonda insoddisfazione. La sua esistenza ha una svolta straordinaria quando, nel corso di un battesimo, sente cantare per la prima volta i tre fratelli ottuagenari Maria, Tulla e Timoteus Thorsen. Jim accomuna questo evento del tutto inaspettato ad un'esperienza mistica: un'emozione che lo fa finalmente sentire vivo.
L’idea di lanciare sul palcoscenico musicale il trio Thorsen diventa ben presto una vera e propria fissazione; un irresistibile tarlo che lo aiuterà a scacciarsi di dosso quella patina di sgradevole apatia che, da qualche tempo, ha ricoperto la quotidianità che lo circonda.
Passando attraverso una lunga sequela di situazioni esilaranti, il nostro amico discografico riuscirà nel difficile intento di conquistare la fiducia dei vecchietti, facendosi strada nel loro passato pieno di momenti dolorosi.

La trama, in apparenza esile, è in realtà pregna di vicende - l'una collegata all'altra - che consentono al lettore di ricostruire le tribolate storie di tre artisti unici: un uomo burbero e scontroso e le sue due sorelle che, seppur profondamente diverse, si dimostrano profondamente legate nella musica e nella vita.
Ritroviamo, con lo scorrere delle pagine, quelli che sono ormai considerati i temi ricorrenti della letteratura scandinava: la solitudine dell'individuo, il desiderio di fuga dalla routine cittadina, l'amore smisurato per la natura ed il trascorrere implacabile del tempo... il tutto con l'onnipresente accompagnamento della musica che assurge al ruolo di coprotagonista dell'intera vicenda.
Narrato con sobrietà ed insolita delicatezza, Norwegian blues è un'opera eccentrica, allo stesso tempo dolce e amara, che riesce a commuovere e a far riflettere sulla potenza della musica e sull'imprevedibilità dell'esistenza. Un romanzo memorabile, che può contare su personaggi autentici, dai sentimenti sinceri, a volte malinconici ma assolutamente non banali.


Consigliato a: coloro che apprezzano quei libri che sono in grado di commuovere e far sorridere allo stesso tempo ed a chiunque ami la musica - e la sua straordinaria magia - a prescindere.


Voto: 8/10


lunedì 17 febbraio 2020

Il passaggio, Leonardo Gori



Il passaggio, secondo romanzo della serie dedicata a Bruno Arcieri (anche se per ambientazione sarebbe il quinto), rappresenta l'ideale continuazione del precedente Nero di maggio.
Siamo nell'agosto del 1944, durante la battaglia per la liberazione di Firenze, ed il nostro protagonista - già Capitano dei Reali Carabinieri ed ora agente dei Servizi Segreti aggregato alle forze alleate - è alla disperata ricerca della fidanzata Elena Contini (un'ebrea nascosta per sfuggire alle deportazioni) in una città letteralmente spaccata in due.  

I ponti sull'Arno sono stati fatti brillare; il popolo fiorentino sta vivendo momenti tremendi, in balia della fame e sotto la costante minaccia degli implacabili cecchini fascisti. 
In quei difficili momenti un misterioso quartetto sta cercando di attraversare il confine tra le due sponde, servendosi del Corridoio Vasariano: unico "passaggio" sopravvissuto alla furia distruttrice dell'esercito tedesco. 
Al seguito di Arcieri si muovono una dottoressa in storia dell'arte, un partigiano del CLN e un giornalista americano di Esquire. La loro missione si presenta sin da subito difficile e piena di pericoli, con ogni personaggio che pare perseguire obiettivi personali che mal si conciliano con quelli del resto del gruppetto.

Leonardo Gori è un ottimo scrittore, che meriterebbe sicuramente maggior fama. Anche stavolta centra completamente il bersaglio, donandoci un romanzo scorrevole, avvincente. e supportato da una notevole contestualizzazione storica. 
La Firenze di fine conflitto viene descritta in maniera encomiabile: una città sommersa dalle macerie, in cui si percepisce nitidamente l'odore del sangue frammisto a quello della polvere da sparo, dove si agitano vite allo sbando alla ricerca della via d'uscita da un incubo durato troppo tempo. 
La struttura del romanzo è solida, con il giusto equilibrio tra il contesto storico - curato alla perfezione - e la tensione del thriller che non molla per un istante. I colpi di scena sono accuratamente calibrati e mai gratuiti, consentendo un'evoluzione della vicenda logica e scevra da forzature.  
E poi... che dire del Capitano Arcieri? Ritrovarlo dà il medesimo piacere dell'incontrare un vecchio amico che non si vede da un po' di tempo e con cui si ha voglia di trascorrere qualche ora, partecipando con mente e cuore alle sue imprese più pericolose e complesse. 

N.B. Concludo con un plauso alla casa editrice TEA, che ha avuto il merito non indifferente di recuperare i primi romanzi della serie - già editi dalla scomparsa Hobby & Work - per dare modo a coloro che si sono appassionati alle nuove avventure del Capitano (poi Colonnello) Arcieri di recuperare anche i primi passi letterari del personaggio: di questo io e tanti altri lettori saremo grati per l'eternità!


Consigliato a: coloro che amano il giallo a sfondo storico, in cui la solidità della trama gialla convive con una notevole ricostruzione d'epoca, ed a chiunque voglia fare la conoscenza di un personaggio come Arcieri che - semplicemente col suo esistere come protagonista di un libro di finzione - rappresenta pagine importanti della storia del nostro paese. 


Voto: 7,5/10




martedì 11 febbraio 2020

Ci sono bambini a zig zag, David Grossman


Dopo aver letto gli ottimi Applausi a scena vuota e Qualcuno con cui correre, l’impatto con Che tu sia per me il coltello (romanzo epistolare ostico e tedioso) mi aveva spinto, momentaneamente, ad interrompere i rapporti con David Grossman.  A distanza di due anni ci ho riprovato… e sono rimasto soddisfatto della mia scelta: ho avuto modo di  gustare fino in fondo un libro che è, in realtà, una favola moderna sulla scoperta della propria identità.

Amnon Feierberg, detto Nono, sta per compiere tredici anni ed  è in odore di Bar mitzwah. Nel corso di un viaggio in treno da Gerusalemme ad Haifa – organizzato dal padre, celebre poliziotto, e dalla sua compagna Gabi  - diventa il protagonista di un’incredibile avventura piena di imprevisti e colpi di scena. Verrà rapito da Felix, un ladro internazionale, che a bordo di una sfavillante Bugatti lo condurrà a fare la conoscenza della celebre attrice Lola.
I due attempati sequestratori dimostreranno sin da subito un’inaspettata conoscenza della defunta madre del ragazzo e lo coinvolgeranno in una serie di peripezie, alla fine delle quali Nono verrà finalmente a sapere la vera storia dei suoi genitori.

Ci sono bambini a zig zag è un libro che si colloca, idealmente, in una sorta di “terra di mezzo” letteraria. Pur avendo l’apparenza del romanzo di formazione per bambini, riesce ad appassionare i lettori di qualsiasi età; può catturare il pubblico dei più giovani grazie ad una serie di avventure che lasciano meravigliati ma è, al tempo stesso, un irresistibile richiamo per i più grandi, che possono tuffarsi in una vicenda intensa e piena di fatti inaspettati.
Narrato in prima persona da un Nono ormai adulto, riesce a raccontare con il linguaggio affascinato dell’adolescenza i momenti che aiutarono il ragazzino a ricomporre i frammenti del suo passato: tre giorni febbrili attraverso cui il piccolo protagonista riuscì a venire a patti con una serie di eventi di cui era stato tenuto all’oscuro.
La storia è bella, delicata, raccontata in maniera gioiosa da un autore di assoluto talento: uno dei maggiori scrittori contemporanei, che si dimostra a suo agio col tema dell’infanzia così come aveva saputo farlo – in altre opere - con temi più complessi e drammatici.


Consigliato a: coloro che amano le fiabe adatte a tutte le età ed a chiunque voglia perdersi in un luna-park di avvenimenti concitati, capaci di divertire e di far riflettere allo stesso tempo.


Voto: 7,5/10


domenica 9 febbraio 2020

Forse ho sognato troppo, Michel Bussi



Michel Bussi ha un'innata capacità di costruire trame ad orologeria, in cui i colpi di scena si susseguono improvvisi e taglienti come la lama di un bisturi: basti pensare a romanzi come lo straordinario Ninfee nere o l'avvincente Mai dimenticare. Negli ultimi libri, però, sembra che questo talento naturale si sia un po' annacquato. Come nel precedente La follia Mazzarino, anche stavolta l'autore francese non centra completamente il bersaglio, costruendo una trama - in precario equilibrio tra storia d'amore e suspense - che non convince del tutto.

Nathalie, hostess dell'Air France, ha tutto ciò che si potrebbe volere dalla vita: un marito che la adora, due belle figlie, una graziosa villetta sulle rive della Senna ed un lavoro che, pur costringendola a volare da un capo all'altro del pianeta, la riempie di orgoglio e passione. Una serie di incredibili coincidenze giungerà a turbare la sua serenità. Si troverà di punto in bianco a ripercorrere il medesimo itinerario di vent'anni prima: tre voli consecutivi a Montreal, Los Angeles e Giacarta, nel corso dei quali il suo cuore era stato rapito da un giovane e geniale musicista di nome Ylian. Si renderà immediatamente conto che qualcosa di strano sta accadendo alla sua esistenza, quasi come se una "mano invisibile" la respingesse indietro nel passato, all'interno di un mistero difficile da comprendere. 

Giocato su continui salti temporali tra il 1999 e il 2019 - in una sorta di gioco degli specchi non sempre calibratissimo - Forse ho sognato troppo risulta un po' troppo lungo, a tratti inverosimile e con un finale piuttosto scontato. Bussi cerca di salvare il salvabile affidandosi alla scorrevolezza - e da questo punto di vista si dimostra un ottimo intrattenitore; la scelta di fuoruscire dai confini del giallo classico per addentrarsi in una storia dalle forti tinte sentimentali, però, non dà i frutti sperati: l'evoluzione romantica del plot è stucchevole ed a tratti persino irritante come nei peggiori romanzi d'appendice.
Bussi sembra ormai completamente assuefatto alle leggi dell'editoria; dover scrivere un best-seller all'anno per onorare un contratto non gli è sicuramente d'aiuto. Probabilmente dovrebbe fermarsi un attimo a riflettere, per elaborare storie più solide e credibili: un atto doveroso nei confronti dei suoi lettori... sicuramente affezionati ma allo stesso tempo esigenti.


Consigliato a: coloro che amano i libri che mescolano la suspense del thriller alla passione delle storie d'amore ed a chiunque apprezzi i libri scorrevoli, che scivolano via leggeri pagina dopo pagina. 


Voto: 6/10 (di stima)


Gio  

mercoledì 5 febbraio 2020

Il migliore amico dell’orso, Arto Paasilinna



Anche se non verrà ricordato come il miglior libro di Paasilinna, questo è di certo uno tra i romanzi più divertenti all'interno della sua vasta produzione letteraria. 
Figlio di una terra algida e nebbiosa (almeno in apparenza), l’autore finlandese recentemente scomparso ha sempre fatto dell'ironia un marchio di fabbrica. La sua abilità si dimostra, soprattutto, nella costruzione dei personaggi: uomini originali e strampalati, portatori di messaggi per nulla convenzionali, che si destreggiano tra avventure esilaranti e profonde riflessioni.
Dopo la lepre di Vatanen e le volpi di Juntunen, stavolta facciamo la conoscenza del prodigioso orso di Oskari Huuskonen. 

Il protagonista è un pastore protestante di mezza età, che vive un periodo di profonda crisi matrimoniale e di vocazione. Nel momento in cui i parrocchiani gli fanno omaggio di un paffuto orsacchiotto – che lui battezzerà Satanasso – Oskari decide di dare un svolta alla sua vita piena di frustrazioni per inseguire un profondo cambiamento esistenziale: dapprima studierà il letargo dell'orso affiancando una giovane ed affascinante etologa; successivamente – accompagnato dall'animale – intraprenderà un lungo viaggio attraverso il continente europeo, sempre in precario equilibrio tra sacro e profano.

Libro divertente ed esilarante, che pare quasi una sorta di “fiaba” rivolta ad un pubblico adulto, Il migliore amico dell’orso rappresenta una celebrazione dell'assurdo ma anche un invito alla riappacificazione con il proprio io interiore. 
Invenzioni rocambolesche si miscelano a domande filosofiche - dalla risposta per niente scontata - sul punto di contatto tra naturale e soprannaturale, in un viaggio fantastico di cui sono protagonisti un reverendo spretato ed un orso in grado di fare qualsiasi cosa: dallo stirare le camicie al miscelare cocktail. 
Un po’ come per il Vatanen di L’anno della lepre, il rapporto di simbiosi che il protagonista instaura con l’animale diventa a poco a poco un irresistibile impulso a liberarsi delle naturali inibizioni per acquisire maggiore flessibilità e libertà intellettuale. 
L'amore spassionato per la natura è un tratto tipico del buon Arto, presente in gran parte dei suoi scritti; anche in questo caso risulta un ingrediente fondamentale all'interno della narrazione, capace di trasformare la visione delle cose e di rimescolare le emozioni, arrivando a strappare un sorriso con lo scorrere inarrestabile delle pagine.
La lettura è veloce e gradevole: non solo per la sua grande semplicità, ma anche per la capacità di creare un’atmosfera intima e scherzosa con il lettore.



Consigliato a: coloro che amano la letteratura in grado di miscelare umorismo, elementi surreali e riflessioni profonde ed a chiunque voglia tuffarsi in un atmosfera nordica da fiaba ricca di pathos naturalistico e di suggestioni. 


Voto: 7,5/10 



Gio     

domenica 2 febbraio 2020

Ah l’amore l’amore, Antonio Manzini




Spiace dirlo – specialmente dopo aver letto decine di recensioni positive – ma con Ah l’amore l’amore prosegue il trend negativo per Manzini, che da un paio di libri a questa parte sembra aver perso per strada l'inventiva e l'originalità che l'avevano contraddistinto. 
Il romanzo - non fraintendetemi - è tutt'altro che noioso: scorre rapidamente e come mero prodotto d'intrattenimento svolge adeguatamente il suo dovere. Risulta però un po' troppo prevedibile e privo di guizzi memorabili; quasi come se l'autore, da qualche tempo a questa parte, fosse diventato schiavo delle esigenze televisive ed avesse come unico obiettivo quello di sfornare sceneggiature già pronte per il piccolo schermo invece che opere ad ampio respiro letterario. 

Rocco Schiavone, che nell'ultimo romanzo era stato ferito da un proiettile vagante, si trova ricoverato in ospedale dopo l'asportazione di un rene. La stessa operazione era stata fatale a Renato Sirchia, facoltoso imprenditore della zona, a causa di un banalissimo errore di trasfusione. 
Costretto all'immobilità, Rocco decide di indagare su quel decesso, avvenuto in sala operatoria, che è stato frettolosamente annoverato tra gli episodi di malasanità. Il vicequestore inizia ben presto a sospettare che la morte di Sirchia non sia la conseguenza di un errore umano; dal suo letto di dolore chiama quindi a raccolta tutti i suoi uomini e segue costantemente lo sviluppo dell'indagine, alla ricerca di una risposta che metta definitivamente a tacere i suoi dubbi.

Ah l'amore l'amore sembra un'opera più televisiva che romanzesca. Francamente parlando, pare un libro scritto più "per contratto" - per garantire la prosecuzione della serie e rispettare l'uscita a cadenza annuale (e quindi per tacitare gli insaziabili appetiti dei fans) - che per rispondere a vere esigenze narrative. Nulla aggiunge al personaggio di Schiavone, che oramai conosciamo alla perfezione. Pare anzi che Manzini abbia voluto concedere più spazio ai comprimari - il vice-ispettore Scipioni e l'agente Casella ad esempio - e approfondire le loro vicende personali, aggiungendo ulteriori filoni narrativi su cui lavorare nei prossimi episodi della serie. 
Giusto o sbagliato?
Mi sembra che Manzini soffra un po' della medesima Sindrome di Maurizio De Giovanni: la trama gialla, col passare del tempo, si è eccessivamente diluita in un'atmosfera da soap televisiva e manca del tutto la volontà (o il coraggio?) di chiarire definitivamente alcune situazioni che si trascinano puntata dopo puntata come se niente fosse.
A ciò si aggiunga il fatto che il protagonista, con la sua personalità strabordante, ha finito per fagocitare tutto ciò che stava attorno, facendo diventare il progetto piuttosto ripetitivo.
Occorrerebbe, a mio avviso, una brusca sterzata, prima che anche il più appassionato dei lettori si disaffezioni, finendo col disinteressarsi prima del tempo alle evoluzioni di un personaggio che si è tanto amato ma che, ultimamente, sta diventando un poco pesante.


Consigliato a: coloro che amano i gialli all'italiana, con interazione tra trama gialla e gusto per la commedia, ed a tutti i numerosi fan di Rocco Schiavone. 


Voto: 6/10


Gio