lunedì 28 ottobre 2019

Così ha inizio il male, Javier Marias


Partiamo da una piccola curiosità… “Così ha inizio il male” è una battuta rivolta da Amleto alla madre, che si trova al cospetto del corpo esanime di Polonio.
Così come nei precedenti romanzi Domani nella battaglia pensa a me e Un cuore così bianco, Marias ha scelto il titolo facendo ricorso ad una citazione shakespeariana.

Siamo a Madrid, negli anni Ottanta.
Juan De Vere, giovane neolaureato, viene assunto come assistente dal regista cinematografico Eduardo Muriel. L'uomo vive in una lussuosa casa del centro con la moglie Beatriz ed i tre figli. Juan viene colpito sin da subito dal distacco con cui il marito tratta la consorte ed una notte, per puro caso, assiste a una scena del tutto incomprensibile: la donna, vestita con una seducente sottoveste, viene brutalmente respinta dal marito.
Il giovane vorrebbe capire i motivi di quell’assurdo comportamento, ma l’enigmatico regista ha ben altro in mente: lo incarica di appurare se le dicerie che circolano sul conto del dottor Van Vechten – un amico di vecchia data – siano o meno fondate. Muriel sospetta che il medico si sia comportato in maniera sconveniente con alcune componenti del gentil sesso; di conseguenza cova il dubbio che il suo sentimento di amicizia nei confronti del personaggio sia mal riposto.
Da quel momento in avanti Juan si dedicherà all’esplorazione di un passato fitto di ombre, arrivando a scoprire le vergogne nascoste della dittatura ma anche le incomprensioni  che giungono a condizionare talune vicende familiari.

Javier Marias è un grandissimo scrittore, capace come pochi altri di indagare a fondo i sentimenti umani, sia per quanto concerne i punti di forza che quelli di debolezza. Facendo leva su una trama abbastanza semplice, piena di riferimenti socio-politici alla Spagna Franchista, è riuscito a costruire un romanzo intenso e pieno di colpi di scena.
Il punto cruciale della narrazione è costituito da un matrimonio logoro e frusto, osservato attraverso lo sguardo di un giovane assistente, il tutto collocato nella Spagna post dittatoriale: una nazione dove sta diffondendosi la liberazione dei costumi ma in cui la regolamentazione del divorzio è ancora lontana.
È descritto in maniera notevole il processo di rimozione che ha avuto luogo in quegli anni: una sorta di "colpo di spugna" che è stato di fatto condiviso da ambo gli schieramenti - Franchisti e anti-Franchisti - al fine di superare il coinvolgimento di buona parte della popolazione nelle nefandezze del totalitarismo.
Ogni frammento della vicenda è esposto con profondità ed attenzione; la narrazione è coinvolgente e carica di trepidazione, con personaggi realistici che vengono tratteggiati in maniera esemplare.
Non va dimenticato, infine, che l’autorevole “El Paìs” ha premiato Così ha inizio il male come libro dell’anno 2014. Giunto all'ultima pagina del romanzo... non ho potuto che dichiararmi d’accordo.


Consigliato a: coloro che amano le vicende famigliari che si svolgono su un sottofondo storico descritto con cura e realismo ed a chiunque ami la scrittura elegante, avvolgente e piena di pathos, in questo caso elaborata da uno dei più grandi autori contemporanei.


Voto: 8+/10



domenica 27 ottobre 2019

Bassa Marea, Enrico Franceschini


Enrico Franceschini, bolognese, ha alle spalle una lunga carriera di corrispondente estero di un grande quotidiano italiano - Repubblica - per il quale ha ricoperto le sedi di New York, Washington, Mosca, Gerusalemme e Londra. Nonostante la residenza londinese, ha mantenuto un legame strettissimo con la sua terra d'origine. Con questo romanzo, debutta ufficialmente del variegato mondo del noir nostrano con una vicenda ambientata lungo la riviera romagnola: quella lingua di terra che si estende per oltre cento chilometri da Ravenna a Gabicce Mare. 
Come sarà stato il suo esordio nella letteratura poliziesca? Lo vedremo tra breve...

Andrea Muratori, per gli amici Mura, è una sorta di alter-ego dello stesso Franceschini. Ex giornalista in pensione, ha da tempo fatto ritorno al paesino dove trascorreva le estati in villeggiatura, dopo una lunga e proficua carriera da inviato giramondo. Pluridivorziato e con pochi soldi a disposizione, vive in un vecchio capanno di pescatori.
Una mattina, mentre sta correndo lungo il litorale, rinviene il corpo di una donna bellissima, più morta che viva a dire il vero. Sarà compito di Mura - aiutato da tre amici coscritti che paiono usciti dalla sceneggiatura di Amici miei - cercare di risolvere l'enigma che si cela nel passato di Sasha: la misteriosa e seducente femmina russa restituita dalle acque dell'Adriatico.

Nonostante le buone intenzioni, si vede benissimo che Franceschini è un novizio del genere. Lo scrittore/giornalista possiede indubbiamente un'ottima penna, capace di tratteggiare luoghi e personaggi in maniera deliziosa. Purtroppo, però, la sua narrazione finisce ben presto vittima di una trama poco consistente, in precario equilibrio tra commedia e situazioni drammatiche, con qualche sparuto colpo di scena a tentare di tener su la baracca.
Più che con un vero e proprio noir, abbiamo a che fare con una sorta di Amarcord: una meticolosa ricostruzione di quella zona d'Italia che durante le vacanze estive si trasforma in una nostrana West Coast, con Mura a far le veci del Lebowski di turno.
I personaggi - il protagonista ed i suoi amici goliardi e cazzari - sono piuttosto simpatici e riescono in qualche modo a dar consistenza ad una vicenda che, in caso contrario, sarebbe stata votata al disastro completo.
Questo romanzo, alla fin fine, è la chiara dimostrazione del fatto che per scrivere dei gialli avvincenti non è sufficiente possedere un'ottima scrittura: probabilmente Franceschini farebbe bene a tornare nei territori della saggistica e della narrativa rievocativa... dove ha dimostrato di possedere delle doti non indifferenti.


Consigliato a: coloro che amano la riviera romagnola, con il suo corredo di spiagge, night-club e lustrini, ed a chiunque si appassioni alle vicende di personaggi simpatici ed un po' goliardi simili a quelli di Amici miei.


Voto: 6/10


martedì 22 ottobre 2019

In viaggio contromano, Michael Zadoorian


Premetto di non aver visto il film Ella & John, che Paolo Virzì ha tratto da questo romanzo, con protagonisti Helen Mirren e Donald Sutherland; di conseguenza il mio giudizio non risentirà dello (scontato?) confronto tra la pagina scritta e lo schermo cinematografico. Detto questo, la lettura di In viaggio contromano mi ha lasciato dentro una sensazione di incompiutezza, quasi come se l’autore avesse voluto approfondire maggiormente alcuni aspetti della vicenda senza però affrontare altre situazioni non meno meritevoli di attenzione. 

Ella e John Robina hanno ottant'anni suonati. Lui è affetto demenza senile, lei ha “più malattie di un paese del terzo mondo”. Un bel giorno balzano sul loro Leisure Seeker – un vecchio camper attrezzato – e partono per un lungo viaggio che da Detroit li condurrà fino a Disneyland, lungo la mitica Route 66. Lasciandosi alle spalle le prescrizioni dei medici e i veti dei figli, cercheranno di godersi, in questo ultimo grande viaggio, il tempo che resta.

Viaggiare “contromano" vuol dire, prima di tutto, fare un tuffo nel passato; tornare indietro negli anni, in un’epoca in cui i figli erano piccoli, gli amici non erano scomparsi, la salute era di acciaio inossidabile. Questa è la scelta di Ella e di John: mettere da parte gli acciacchi e la vecchiaia per godersi fino in fondo le rimanenti gocce della loro esistenza.
C’è indubbiamente una profonda ammirazione per la tenacia di questa coppia attempata, per il loro modo di superare gli ostacoli, per la dignità con cui scelgono di vivere gli ultimi scampoli della loro vita.
Purtroppo, però, lo sviluppo narrativo funziona solo fino a un certo punto. Il racconto non procede mai troppo spedito e, a tratti, pare quasi di sfogliare una lunga guida turistica: le descrizioni di luoghi e territori risultano ridondanti e poco interessanti per coloro che non conoscono a fondo gli Stati Uniti. Inoltre, si ravvisa una certa ripetitività nei gesti e nelle situazioni, tra i pasti consumati nei fast-food, la ricerca di parcheggi per il camper e le somministrazioni di pasticche contro i dolori della terza età.
Alla fine della fiera si tratta di un romanzo dagli intenti meritevoli, che a tratti riesce anche ad emozionare; peccato però che lo svolgimento non sia adeguato alle aspettative iniziali.


Consigliato a: coloro che amano le storie “on the road” ed a chiunque apprezzi i romanzi che descrivono splendori e miserie della terza età.


Voto: 6,5/10



domenica 20 ottobre 2019

La notte più lunga, Michael Connelly


Diavolo di un Connelly! 
Sfido chiunque ad arrivare al 21° episodio di una serie poliziesca - quella incentrata su Harry Bosch, per l'appunto - senza perdere un colpo. Lui però, maestro tra i maestri del genere, ci riesce benissimo: per l'ennesima volta il buon Michael è riuscito a regalarci un thriller teso ed adrenalinico, evitando i principali pericoli in cui spesso incappano le saghe che si protraggono nel tempo: ripetitività, inverosimiglianza, mancanza di idee.
La notte più lunga, probabilmente, non verrà ricordato come il suo miglior romanzo; resta però un prodotto di altissimo livello, che cattura il lettore senza mollare la presa nell'arco delle quasi quattrocento pagine... e questo non è poco. Ma andiamo con ordine, partendo dal plot. 


L'alba di un nuovo giorno si sta affacciando su Los Angeles. Dopo aver terminato il turno di lavoro, la detective Renée Ballard - già protagonista di L'ultimo giro della notte - fa ritorno al proprio distretto. In quest'occasione la sua strada incrocia quella di Harry Bosch, intento a frugare tra gli schedari. L'ex detective, ora in carico alla polizia di San Fernando (dove si occupa di "casi freddi"), sta indagando sull'omicidio di Daisy Clayton, una ragazzina il cui corpo è stato rinvenuto in un cassonetto. 
Renée, di natura diffidente, si mostra restia a dare confidenza all'anziano e brizzolato collega. Dal momento in cui viene a conoscenza dei particolari del delitto, però, qualcosa dentro di lei pare sciogliersi. Decide così di collaborare con Bosch, per fornire il proprio apporto alla soluzione del caso. 

"Credo che questo sia l'inizio di una bella amicizia". Mai come in questo caso la citazione di "Casablanca" appare adatta per descrivere l'abbinamento di Renée Ballard con Harry Bosch.
Quando un autore come Connelly, che ha scritto parecchi libri, sceglie di introdurre in una serie un nuovo personaggio, il rischio di incorrere nell' "effetto sitcom" non può essere escluso a priori: nessuno può valutare, infatti, quale sarà la reazione del pubblico di fronte alla novità. 
Dopo aver letto questo primo romanzo della nuova coppia investigativa maschile/femminile, però, possiamo dire con certezza che anche stavolta Connelly ha centrato il bersaglio.
Il burbero Bosch - leggermente imbolsito per gli acciacchi (il ginocchio dolente, soprattutto) e per l'età - si trova a collaborare con una ragazza addirittura più tosta e scontrosa di lui. Visto ciò che accade nel corso della storia, pare addirittura che Ballard riesca ad infondere nuova linfa vitale nell'anziano ed esperto detective. 
Il romanzo, come al solito, viaggia rapido come un intercity nella notte: la prosa è tranciante come una pallottola, gli snodi narrativi sono convincenti e non danno al lettore il tempo per tirare il fiato. 
Perché un poliziesco funzioni, però, occorre anche l'opera di un abile traduttore: la simbiosi tra Connelly e l'ottimo Alfredo Colitto - che dura ormai da qualche libro - sta dando frutti notevoli: il lavoro svolto dal nostro connazionale è di altissimo livello e riesce a preservare in maniera encomiabile la prosa tagliente e coinvolgente di questo grande autore d'oltreoceano.


Consigliato a: coloro che amano i thriller "con l'anima". ricchi di pathos e di adrenalina, ed a chiunque apprezzi i romanzi che scorrono tra le dita senza concedere un solo attimo di tregua o di cedimento.


Voto: 7,5/10


venerdì 18 ottobre 2019

I giorni del giudizio, Giampaolo Simi



Giampaolo Simi è sempre una sicurezza. Dopo gli eccellenti Cosa resta di noi (Premio Scerbanenco), La ragazza sbagliata e Come una famiglia, l'autore toscano torna con un romanzo che solo in apparenza si distacca dalla precedente produzione letteraria. In realtà anche in quest'ultima opera ritroviamo quelle che sono le sue tematiche predilette: l'ambientazione versiliana, il lavoro di scavo psicologico ma, soprattutto, la capacità di scrutare all'interno della zona d'ombra che ciascuno porta dentro di sé.

Esther Bonarrigo, moglie del celebre imprenditore della ristorazione Daniel, viene barbaramente uccisa nella sua principesca tenuta nei pressi di Lucca. A poche centinaia di metri di distanza viene rinvenuto il cadavere di un ex dipendente, che si presume essere l'amante della donna. Il principale sospettato del delitto è il marito di Esther, che proclama la propria estraneità ai fatti. 
Le prove raccolte dagli inquirenti sono però sufficienti per portare l’uomo in giudizio. Toccherà a sei giurati popolari - che affiancheranno i due giudici togati - decidere se l'imputato è colpevole o innocente.
Col susseguirsi delle udienze - ognuna descritta attraverso il punto di vista di un giurato diverso - assisteremo ad un dibattimento che si rivelerà difficile, intenso e pieno di colpi di scena. 

I giorni del giudizio, nonostante abbia le sembianze ed i cromosomi del legal thriller, non si limita a raccontare la ricostruzione di un crimine efferato e della sua soluzione giudiziaria. Rappresenta, nella realtà, un affresco della società contemporanea e dei rapporti umani; un'analisi del confronto tra differenti individualità che a poco a poco si metteranno a nudo, facendo emergere una verità che va ben al di là del mero discorso processuale.
Al centro del palcoscenico abbiamo sei cittadini qualsiasi, che per puro caso si sono ritrovati rinchiusi nella stessa stanza a decidere il destino di un altro essere umano; sei personaggi ben caratterizzati che - volutamente - ricalcano lo stereotipo del cittadino medio di oggi: dalla giovane precaria sottopagata all'immigrato nordafricano sfruttato, dall'algida bibliotecaria di indole femminista al pensionato ruvido e incazzoso; dal tecnologico youtuber alla ex modella proprietaria di una boutique. Ognuno dei giurati porta con sè un retroterra di timori, dubbi inespressi, domande insolubili; ciascuna personalità è contraddistinta da un viluppo di vicende in cui si intrecciano luci ed ombre. Tutti i protagonisti sanno che il verdetto finale, col suo corollario di pesanti conseguenze, inciderà non solo sulla vita di Bonarrigo ma anche sul futuro di ciascuno di loro.
Sostenuto da un'ottima scrittura, che non molla la presa nell'arco di oltre cinquecento pagine, I giorni del giudizio è un libro che merita di essere letto; un romanzo dall'incedere processuale ma dalle forti connotazioni noir, che si sviluppa in un crescendo tra indagini e calibrati colpi di scena.


Consigliato a: coloro che amano il giallo di casa nostra e lo considerano un utile grimaldello per penetrare le evoluzioni della società contemporanea ed a chiunque apprezzi le storie che sanno scavare in profondità nel lato oscuro dei protagonisti.


Voto: 8/10






mercoledì 16 ottobre 2019

Tra loro, Richard Ford


Che Richard Ford sia uno dei più grandi narratori contemporanei non è una novità. Anche in questo agile volumetto – lungo poco più di un centinaio di pagine - l’autore riesce a dimostrare tutto il suo talento; ci accompagna attraverso un viaggio sincero e commovente in una storia tutta americana: quella del suo rapporto con i genitori. Ne scaturisce un libro biografico, toccante ed intimista, attraverso cui ci immergiamo in una tenera e coinvolgente vicenda famigliare. E, probabilmente, dopo aver terminato la lettura ognuno di noi si sentirà spinto a riconsiderare la propria storia personale oltreché il legame profondo con coloro che ci hanno messo al mondo. 

Siamo nell’America degli anni venti. Il padre di Richard fa il rappresentante per una ditta produttrice di amido per bucato; la madre viaggia al suo fianco lungo le tortuose ed aride strade del Mississippi. I due si sono conosciuti giovanissimi e, dopo il matrimonio, hanno deciso di viaggiare insieme per non restare separati l’uno dall’altra.
La gravidanza della donna, però, cambierà improvvisamente le carte in tavola. L’arrivo di un figlio, del tutto inatteso, finirà col separare quella coppia inscindibile: il padre proseguirà in solitaria la sua attività di commercio; la donna si rassegnerà alla permanenza in città. È inutile sottolineare che questo figlio, col passare del tempo, diventerà uno dei più importanti scrittori americani…

Questo libro non può essere considerato come un unico blocco narrativo. È composto da due distinti memoriali, redatti in epoche diverse, ed in cui percepiamo delle evidenti difformità stilistiche. Il ritratto del padre, incentrato principalmente sulla ricostruzione d’epoca e sull’analisi del contesto sociale, segue uno svolgimento tranquillo e ponderato.
Quello della madre, invece, ha una cadenza diversa: più ritmato, con ampio spazio per i dialoghi, pare animato dalla volontà di Ford di “elaborare il lutto” per la recente scomparsa, quasi come se l’autore volesse scontare le proprie lacune di figlio assente e distante.
Abbiamo a che fare con due ritratti sintetici, emotivamente forti e estremamente coinvolgenti, in cui la vita e la morte s'intrecciano senza soluzione di continuità, lasciando nel lettore un senso di affetto e nostalgia.
Non siamo sicuramente al livello dei capolavori fordiani – citiamo non a caso Il giorno dell’indipendenza e Lo stato delle cose – e si tratta, probabilmente, di un’abile “operazione editoriale” che ha condensato due resoconti stilati ad anni di distanza in un unico tomo. La scrittura, però, è sempre sublime e riesce a rendere notevoli anche due scritti dalla forte connotazione intimista, che lo scrittore statunitense ha redatto – probabilmente – più per se stesso che per il pubblico dei lettori.      


Consigliato a: coloro che amano le biografie, le storie famigliari e i ritratti dell’America del secolo scorso ed a chiunque intenda approfondire la conoscenza di quello straordinario narratore che si chiama Richard Ford.


Voto: 7/10


martedì 15 ottobre 2019

Da lontano sembrano mosche, Kike Ferrari


È molto particolare la vicenda di quest’autore sudamericano: di giorno lavora come addetto alle pulizie nella metropolitana di Buenos Aires; di notte si dedica alla scrittura. Con Da lontano sembrano mosche – titolo dagli evidenti riferimenti borgesiani – Ferrari è riuscito nell’intento di costruire un noir atipico, breve ma intenso, ricco di suspense e colpi di scena. E per raggiungere lo scopo non ha fatto ricorso, come spesso capita, all’usuale figura del poliziotto/detective/investigatore, ma ha scelto di incentrare la vicenda su un personaggio per nulla gradevole - il signor Machi: un potente ed arrogante uomo d’’affari, che trascorre le sue giornate tra una sniffata di coca e un servizietto di qualche femmina in cerca di favori.

Una mattina, mentre si trova alla guida della sua lussuosa BMW, Machi buca inavvertitamente uno pneumatico. Mentre si dà da fare per ripararlo, nel bagagliaio della macchina scopre il cadavere di uno sconosciuto, col volto devastato da una pallottola esplosa a bruciapelo. Inizia così una sarabanda di disavventure tragicomiche, con il protagonista che percorrerà in lungo e in largo la città cercando di venir fuori dalla difficile situazione.

Ambientato in un’Argentina marcia fino al midollo, questo noir dalle venature pulp rappresenta un vero e proprio atto di accusa alla società contemporanea, in cui uno stuolo di nuovi ricchi – avidi, altezzosi e crudeli - ha ormai assunto una posizione di potere. La narrazione è fitta di riferimenti culturali e di richiami al mondo consumistico del giorno d’oggi; non mancano però i richiami letterari ed i collegamenti con la storia argentina del ventesimo secolo.
La scrittura è fluida, per nulla impegnativa. Le descrizioni di Buenos Aires sono suggestive e riescono a far percepire l’essenza di quella enclave sudamericana che, molto spesso, rimane occultata sotto una patina di stereotipi.
Il finale – del tutto spiazzante – vale davvero “il prezzo del biglietto”: rappresenta l’ideale ciliegina sulla torta di una vicenda nera originale e coinvolgente, che riesce a catturare il lettore dalla prima all’ultima pagina.


Consigliato a: coloro che vogliono leggere un noir innovativo e per nulla convenzionale ed a chiunque apprezzi i romanzi dalla scrittura veloce e priva di fronzoli.


Voto: 7,5/10




sabato 12 ottobre 2019

Il mio nome è Rosso, Orhan Pamuk





Può un’opera letteraria essere allo stesso tempo bellissima e noiosa, innovativa e monotona, suadente ed urticante? Questa sensazione l’ho provata leggendo Il mio nome è Rosso, uno tra i libri più celebri ed acclamati del Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk.
Si tratta di un romanzo “a più voci”, dalla struttura complessa, che si articola in un susseguirsi di capitoli che vengono raccontati dal punto di vista di personaggi diversi, fra cui figura anche Nero: un ex miniaturista, tornato ad Istanbul dopo dodici anni di lontananza, che cova dentro di sé un amore smisurato per la giovane vedova Şeküre.

Siamo nella Istanbul del 1591. Tra i miniaturisti che lavorano nel Palazzo del Sultano – il cui scopo è quello di "vedere" ciò che disegnano con gli occhi di Allah -  si nasconde un crudele assassino. Nero è disposto a qualsiasi cosa per smascherare il criminale, anche a mettere in gioco la propria vita. Perché, in caso di fallimento, gli sarebbe precluso per sempre il futuro che sogna di trascorrere accanto alla donna che ama.
Sullo sfondo, assistiamo ad un vero e proprio conflitto tra la tradizione ottomana, contraddistinta da un implacabile fanatismo, e l'ammirazione che alcuni personaggi – tra cui lo stesso Nero - provano per i dipinti della scuola veneziana e, di riflesso, anche per, per l'occidente cristiano

Quest’opera risulta sicuramente memorabile per quanto concerne la struttura, la polifonia e, soprattutto, per la straordinaria ambientazione in una Istambul fredda e nevosa alla fine del sedicesimo secolo. Pamuk è riuscito, con il suo stile perfetto ed evocativo, a trasmettere il preciso ritratto di un'epoca e della sua cultura, dipingendo i dilemmi filosofici, iconografici e religiosi di un mondo ormai al tramonto.
Purtroppo, a tratti, il romanzo risulta pesante, monotono ed ossessivamente descrittivo: i riferimenti storici si accumulano, le pagine in cui vengono descritti i lavori dei vari miniaturisti sono eccessive e, talvolta, pare che l’autore diventi preda di un’ossessione morbosa e maniacale per il dettaglio.
Personalmente, preferisco il Pamuk che racconta la Istanbul di oggi: quello di La stranezza che ho nella testa e Il museo dell’innocenza, tanto per intenderci. Nulla toglie, però, alla grandezza stilistica e formale di questo mosaico difficile ed elitario, in cui è facile perdersi ma – allo stesso tempo – risulta bellissimo e sodisfacente ritrovare la strada.


Consigliato a: coloro che non hanno paura di intraprendere un percorso difficile e per chiunque abbia il desiderio di immergersi nella cultura e nella storia di un’epoca lontana, riprodotta attraverso una scrittura elegante e perfetta.


Voto: 7/10




mercoledì 9 ottobre 2019

Lo splendore casuale delle meduse, Judith Schalansky


Dopo aver letto l’ottimo In un chiaro gelido mattino di gennaio all'inizio del ventunesimo secolo di Roland Schimmelpfennig, per puro caso mi sono dedicato ad un altro romanzo ambientato nella Germania post-riunificazione: una nazione in pieno fermento socio-culturale ed in cui, talvolta, si intravedono forti resistenze al cambiamento. A differenza del libro precedente, però, il mio gradimento è risultato essere vicino ai minimi sindacali…
Ma procediamo per ordine, cominciando dalla trama.

Inge Lohmark è un’insegnante di Biologia in una minuscola cittadina dell'ex DDR. Ai suoi allievi cerca di trasmettere un unico, fondamentale messaggio: quello che la  concorrenza tra le varie specie e la capacità di adattamento sono l’unica cosa che conta veramente. È pertanto propensa, nella sua attività di docente, a non difendere i ragazzi più goffi e più deboli in quanto la selezione naturale provvederà con la sua mannaia inesorabile a far piazza pulita di chi non è in grado di stare al passo con gli altri. La sua rigida applicazione del “darwinismo sociale” si scontrerà, però, con la nascita di un sentimento di quasi-tenerezza nei confronti di un'allieva.

Lo splendore casuale delle meduse racconta la scialba quotidianità della vita scolastica attraverso le (più o meno) discutibili riflessioni sull’esistenza di una professoressa che è, di fatto, un residuato di un’altra epoca: una sorta di reduce del socialismo reale – un sogno ormai spazzato via dal vento implacabile della storia – che tenta di riciclarsi in un contesto profondamente diverso da quello in cui era nata e cresciuta. 
L’inarrestabile flusso di coscienza di Inge prende il via dalle sue larghe conoscenze  biologiche/filogenetiche per raggiungere un punto di non ritorno, in cui si disvelano un’aridità sentimentale ed una frigidità emotiva davvero uniche.
Le divagazioni della protagonista, che di primo acchito possono sembrare interessanti, ad un certo punto diventano piuttosto fastidiose: ci si perde in una specie di onanismo cerebrale che si perpetua attraverso una narrazione spezzettata e ridondante.
A tutto ciò si aggiunga il fatto che lo stile di scrittura e la storia stessa assumono una pesantezza pachidermica, che non invoglia di certo a proseguire la lettura.
Il finale – in parte consolatorio –  non riesce a riscattare un romanzo che, nonostante l’originalità e le particolarità della narrazione, rimane purtroppo relegato nell’arido territorio delle ”buone intenzioni”.   


Consigliato a: coloro che desiderano lanciare uno sguardo sulla Germania di oggi ed a chiunque voglia provare a capire il disorientamento di coloro che hanno patito il brusco passaggio dal socialismo reale al capitalismo post-riunificazione.


Voto: 5,5/10



lunedì 7 ottobre 2019

Gli omicidi dello zodiaco, Shimada Soji


Strana vicenda quella di Gli omicidi dello zodiaco. Pubblicato in Giappone nel  lontano 1981, è stato riscoperto – e trasposto prima in lingua inglese e poi pure in Italiano – dopo che l’eminente “The Guardian” lo ha inserito tra i migliori dieci libri riguardanti il tema “enigma della camera chiusa”. Purtroppo, dissento completamente da questo giudizio. Al di là del fatto che il delitto perpetrato in una stanza inaccessibile dall’esterno rappresenta un aspetto del tutto secondario della vicenda (e con un soluzione per nulla sorprendente), per il resto ci troviamo  di fronte ad un’opera che – più che all’ingegno giapponese – sembra far riferimento alle truffe in stile napoletano, del genere “pacco, doppio pacco e contropaccotto”.  Inoltre (e scusate lo spoiler) la storia dell’esile e tranquilla donnina del Sol Levante che – come già avvenuto in Le quattro casalinghe di Tokyo della Kirino – si munisce di seghetto e fa a pezzi i cadaveri per spargerli in ogni dove risulta più ridicola che avvincente. 

Siamo in Giappone, verso la fine degli anni Trenta. Il corpo senza vita di Heikichi Umezawa – un ricco artista che si diletta in astrologia - viene ritrovato nel suo studio chiuso a chiave dall'interno. Tra i suoi appunti viene rinvenuto uno scritto che fa riferimento ad un progetto folle ed inconcepibile: la creazione di Azoth - l'essere femminile perfetto – che lo studioso avrebbe ottenuto unendo pezzi dei corpi delle sue figlie, nipoti e figliastre. Dopo la morte dell'artista, i cadaveri smembrati delle sei ragazze vengono scoperti in diversi luoghi dell'arcipelago giapponese; gli inquirenti però non riescono a venire a capo dell'orrido delitto.
Parecchi anni dopo, due improvvisati detective riapriranno le indagini, giunte ad un punto morto, alla ricerca delle due risposte fondamentali: chi ha ucciso Umezawa ma, soprattutto, chi ha messo in atto il suo assurdo e crudele disegno?

La letteratura nipponica ci ha fornito, nel corso degli anni, ottimi esempi di narrativa gialla: per dire un titolo a caso, cito Il sospettato X di Keigo Higashino. Stavolta, però, non ci siamo proprio…
La narrazione è tediosa e ridondante; la soluzione del mistero arriva attraverso un’analisi  quasi morbosa di dettagli infinitesimali, che in un'indagine seria e realistica verrebbero sicuramente trascurati. Nei colloqui tra i due investigatori c’è una continua ripetizione dei medesimi temi, che finiscono per l’allungare un po’ troppo un brodo piuttosto insipido.

Non so chi abbia redatto la classifica apparsa su “The Guardian”, che ha inserito il libro di Shimada al secondo posto dopo Le tre bare del sommo Dickson Carr. Che qualcuno abbia ritenuto questo gialletto superiore a capolavori del genere come Il mistero della camera gialla di Leroux, La banda maculata di Conan Doyle e Delitti da mille e una notte del medesimo Carr… fa davvero gridare vendetta!


Consigliato a: coloro che apprezzano i gialli dalle soluzioni fantasiose - seppur poco plausibili – ed a tutti gli amanti della cultura del Sol Levante.


Voto: 5/10



martedì 1 ottobre 2019

In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo, Roland Schimmelpfennig



Per Fazi sarà sicuramente un anno da ricordare. Oltre ad aver pubblicato Il ragazzo di Marcus Malte – che va annoverato tra i migliori libri usciti in questo segmento di 2019 – ci ha riservato una vera e propria chicca editoriale: il romanzo d’esordio di Roland Schimmelpfennig, uno dei più celebri drammaturghi contemporanei.
L’opera ha un titolo chilometrico, difficile da ricordare quanto il nome dell’autore. Si tratta, in realtà, di un biglietto da visita veramente azzeccato ed evocativo, che fa pensare ad una favola sin dal suo folgorante incipit:

In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo un lupo solitario attraversò poco dopo il sorgere del sole il fiume ghiacciato che separa la Germania dalla Polonia.

Abbiamo un lupo che attraversa il confine polacco-tedesco, per l’appunto. Ma anche un manovale bloccato in un ingorgo autostradale che riesce a fotografarlo; due ragazzini che fuggono di casa; un padre alcoolizzato che si mette sulle loro tracce; una donna demotivata che riscopre i luoghi della propria gioventù; il losco proprietario di un locale tinto di nero che si offre di ospitare i due adolescenti…
Questi sono i protagonisti di un'algida fiaba metropolitana che si svolge nella Berlino frenetica di oggi: una città cupa e tenebrosa, in piena ricostruzione dopo la riunificazione tedesca e soggetta ad un’incessante ondata migratoria, che fa da contraltare alle gelide lande ricoperte di neve.

Il lupo – figura misteriosa, rivestita di un’aura quasi mitica – rappresenta il trait d’union tra le varie vicende. Appare e scompare in varie parti della città, come una sorta di fantasma, facendosi strada all’interno delle paure più recondite di un popolo che, malgrado i cambiamenti socio-economici in atto, continua a patire un pericoloso senso di disorientamento.
Lo stile è secco, diretto, scevro da venature emotive; la narrazione è volutamente frammentaria, a tratti minimalista, fitta di dialoghi smozzicati e monologhi descritti in punta di penna.
Un romanzo corale originale, che porta dentro di sé i cromosomi di quello straniamento brechtiano di cui si è nutrito gran parte del teatro moderno; ma anche un’opera che ci permette di osservare da vicino le emozioni - raggelate, sospese, sconvolte ma pur sempre sincere – di un popolo come quello tedesco, alle prese con i propri demoni ancestrali.


Consigliato a: coloro che adorano la letteratura quando cammina sospesa sul filo sottile che separa il teatro dal romanzo ed a chiunque si appassioni alle vicende corali, in cui si crea una forte interazione tra i vari personaggi.


Voto: 7,5/10