martedì 31 dicembre 2019

Aadam ed Eeva, Arto Paasilinna

Alla faccia di chi pensava che i migliori romanzi di Paasilinna fossero già stati tutti tradotti!
Nonostante sia arrivato in Italia con parecchi anni di ritardo (in Finlandia è uscito nel lontano 1993!), questo libro merita sicuramente un posto d’onore nella vasta produzione dello scrittore finlandese. Al suo interno ritroviamo infatti tutte le peculiarità del vecchio Arto: in particolare quel senso dell’umorismo raro come una pietra preziosa che è in grado di tramutare la risata in un potente strumento di riflessione

Aadam Rymättylä è un piccolo imprenditore che tira avanti con difficoltà, schiacciato dai debiti e dai sempre più frequenti pignoramenti. Costretto a vivere nel capannone della ditta, nei sobborghi di Helsinki, continua indefesso le sue sperimentazioni con l’obiettivo di inventare una batteria super-leggera dal notevole impatto sul sistema energetico globale.
Sarà l’improvvisa comparsa di una donna a dare una svolta alla sua esistenza: grazie all’aiuto dell’avvocatessa Eeva Kontupohja, che ha il grosso merito di credere nel suo talento, costruirà un prototipo di batteria in grado di funzionare per davvero. L’invenzione gli farà salire i gradini della scala che conduce al successo ed alla ricchezza... mettendolo però in cattiva luce con i “grandi” della terra che, vedendo intaccati i loro interessi economici, assolderanno un sicario arrivato fresco fresco dalla Sicilia per eliminarlo.

Arto Paasilinna, purtroppo, ci ha lasciati nel corso del 2018. Grazie a Iperborea possiamo però continuare a leggere le sue storie straordinarie, capaci di divertire e commuovere allo stesso tempo (sono parecchi i libri che non sono ancora stati tradotti in Italiano).
Aadam ed Eeva è una storia brillante, divertente e surreale. In ogni riga riscopriamo lo stile magico e ineguagliabile dello scrittore, capace di strappare la risata ma anche la lacrima.
Il racconto, seppur contraddistinto da una serie di eventi concitati ed esilaranti, è percorso da una vena malinconica a sottolineare l’insensatezza che contraddistingue l’umana esistenza. Pare quasi che lo sguardo di Paasilinna - che si rivela ad ogni passo carico di humour e di disincanto - sia l’unica ancora di salvezza per un pianeta alla deriva che è solo capace di umiliare ed insultare le persone più deboli.
Sono poco più di duecento pagine… ma si divorano alla velocità della luce. Un ottimo libro con cui  chiudere questo 2019, che si è rivelato pieno di letture bellissime ed avvincenti.


Consigliato a: coloro che amano i libri in grado di divertire e commuovere allo stesso tempo ed a chiunque si appassioni ai personaggi stralunati e disincantati che sono il fiore all'occhiello della produzione paasilinniana.


Voto: 8/10


domenica 29 dicembre 2019

Tutta quella brava gente, Marco Felder



La collana Nero Rizzoli ha il grande merito di aver sdoganato il noir di casa nostra, fornendo un "rifugio" sicuro ed accogliente ad autori di assoluto talento come Piergiorgio Pulixi, Enrico Pandiani, Andrea Cotti ed altri ancora. Purtroppo, però, si è anche lasciata prendere la mano ed ha pubblicato romanzi di scrittori che con il poliziesco ci azzeccano come i cavoli a merenda. Se Enrico Franceschini, con il suo Bassa marea, aveva evitato il naufragio facendo ricorso alle sue ineguagliabili doti di giornalista/narratore, peggio di lui è andata a Marco Felder - un nom de plume dietro cui si celano Jadel Andreetto e Guglielmo Pispisa, membri dell'ensemble narrativo Kai Zen - che è riuscito a concepire uno dei peggiori romanzi che mi sia mai capitato di leggere (e ne ho letti parecchi...)

L'idea di partenza sarebbe anche buona: quello di un poliziotto in servizio a Roma - Tanino Barcellona - che viene trasferito (per dispetto? per punizione? per puro caso? questo non si sa) in una fredda regione del Nord Italia. Però... però... E vabbe'... credo che al buon Antonio Manzini siano un po' fischiate le orecchie, anche se stavolta al posto di Aosta c'è Bolzano, altra città in cui purtroppo... Non è (mai) stagione!
Appena arrivato, viene immediatamente coinvolto in un'indagine delicatissima: quella su un assassino seriale che strangola le sue vittime senza lasciare traccia. Tanino viene pertanto affiancato al rude Karl Rottensteiner, un veterano della Squadra Mobile che ricorda un po' il vecchio Serpico di Paciniana memoria. 
La strana coppia di poliziotti dovrà risolvere un enigma che affonda le proprie radici in un passato mai dimenticato, in cui l'eco dei nazionalismi e delle bombe al tritolo non è ancora stato del tutto silenziato. 

Personaggi tagliati con l'accetta, una trama infarcita di luoghi comuni e la totale assenza di ispirazione (pare quasi che qualcuno abbia chiesto a (ai) Felder: "scrivici qualcosa di noir da schiaffare nella collana!") sono gli aspetti più irritanti di un romanzo che non lascerà grande traccia del suo passaggio all'interno della letteratura di genere. 
Il gruppo Kai Zen si è sicuramente fatto valere in altri ambiti diversi dal noir; in questo contesto i due componenti del collettivo appaiono come due pugili suonati che cercano di fare stare in piedi una baracca traballante. Il plot confuso e ripetitivo non li aiuta di certo nell'intento; i colpi di scena sono telefonati e lo sfondo storico/politico che sta alle spalle della vicenda ha la friabilità di un biscotto secco. 
La noia ben presto giunge a farla da padrone, ricoprendo con la sua patina viscida ed appiccicosa ogni dettaglio, ogni pagina, ogni buon proposito del lettore. 
Che altro c'è da dire? Spero che chi cura la collana Nero Rizzoli, d'ora in avanti, faccia delle scelte più sagge e meno improntate al "numero" dei noir da pubblicare.... perché esiste un livello di decenza letteraria sotto cui nessuna casa editrice dovrebbe mai scendere. E credo che con Tutta quella brava gente si sia, come si suole dire, toccato veramente il fondo. 


Consigliato a: chi vuole farsi un'idea dell'Alto Adige e dei suoi nazionalismi mai sopiti e sempre pronti a sbocciare come funghi dopo un temporale. 


Voto: 2/10 


sabato 28 dicembre 2019

Le particelle elementari, Michel Houellebecq


Dopo la parziale delusione di Sottomissione - libro di cui, a mio parere, si è parlato sin troppo e spesso a sproposito - ho deciso di dare un'altra occasione a Houellebecq... ed il mio sforzo è stato degnamente premiato. Le particelle elementari è un signor romanzo da cui emerge il talento cristallino di un autore che si distingue dai contemporanei sia per lo stile particolare sia per i contenuti provocatori, che gli garantiscono una posizione di primo piano tra i grandi nichilisti del mondo letterario.

Michel Djerzinski e Bruno Clément sono due fratellastri che non potrebbero essere più diversi l'uno dall'altro. Michel è un insigne scienziato, che ha dedicato la propria vita allo studio e alla sperimentazione, e che nutre il desiderio di arrivare un giorno a clonare gli esseri umani. Bruno, invece, è un insegnante patologicamente attratto dal sesso, tanto da avere alle spalle numerosi ricoveri in cliniche specializzate. 
Bruno e Michel, in realtà, non sono che due facce della stessa medaglia; il loro comportamento non è altro che la naturale conseguenza del mondo in cui vivono: un territorio algido e terrificante, in cui l'incidenza del caso e l'isolamento dell'individuo finiscono per farla da padroni. Attraverso l'esame dei due personaggi l'autore prova a descrivere con freddo ed analitico disincanto la solitudine umana nella società occidentale.

Houellebecq, come ben si sa, è un autore duro, cattivo e talvolta indisponente. Le particelle elementari è un libro che risulta di difficile classificazione dal punto di vista stilistico e della struttura. Se da un lato può essere interpretato come un racconto a metà strada tra la realtà e la finzione; da un altro può essere definito come un elaborato saggio che utilizza i canoni della narrativa per cercare di dare un'adeguata soluzione all'annoso problema dell'umana esistenza.
Lo sviluppo della trama alterna atteggiamenti umani piuttosto comuni e standardizzati (l'attrazione sessuale, ad esempio) a studi scientifici molto ben descritti. 
L'indagine sulla psicologia dei personaggi si sviluppa su due versanti opposti ed inconciliabili - come sono quelli in cui si collocano i due fratellastri - ma capaci di far emergere un disagio che li accomuna inesorabilmente. La tematica scientifica (Michel) e quella sessuale (Bruno) sono i due altari/contraltari su cui si sacrifica l'esistenza di due personaggi che l'autore accompagna in maniera quasi cinica verso il loro destino. 
Ed alla fine, se si vuole scorgere a tutti i costi un punto di contatto tra le due storie, questo lo possiamo trovare nell'OSSESSIONE: un morbo inguaribile che aggredisce l'esistenza di Bruno e di Michel, rendendoli totalmente incapaci di costruire un serio legame affettivo.


Consigliato a: chi desidera affrontare un approccio diverso dal solito al problema della solitudine nella civiltà occidentale ed a chiunque ami la letteratura capace di confrontarsi con le grandi ed insolubili domande sull'esistenza.


Voto: 7,5/10
















giovedì 19 dicembre 2019

La bella sconosciuta, Gianni Farinetti





Chi ha ucciso Bruno Chiovero, uomo scontroso ed aggressivo, che risultava antipatico a tutti?
Questo è il perno attorno a cui ruota l’intera narrazione di La bella sconosciuta, ultimo romanzo di Gianni Farinetti, ambientato nei luoghi cari all'autore: i paesaggi delle Langhe racchiusi tra il Piemonte e la Liguria di Ponente.
Come nei due libri precedenti – i fortunati Rebus di mezza estate e Il ballo degli amanti perduti – l’indagine viene condotta dal Maresciallo della locale stazione dei Carabinieri, Beppe Buonanno, coadiuvato dall'irresistibile Sebastiano Guarienti, sceneggiatore gay dotato di sagacia ed intuito.

Siamo nel bel mezzo di una torrida estate. Un’improvvisa disgrazia, come un fulmine a ciel sereno, viene a turbare la pace e la tranquillità di quei luoghi incantevoli: il corpo senza vita di un uomo inviso all'intera comunità viene ritrovato all'interno di una cisterna. Il Maresciallo, però, non è propenso a credere ad un evento accidentale; anzi, pare convincersi sin da subito che si tratti di un delitto.    
La matassa da sbrogliare si presenta complessa ed intricata, simile ad un gioco di specchi che forniscono riflessi contrastanti. Ogni singolo dettaglio, però, sembra avere a che fare con la figura di Angela, la “bella sconosciuta” che si trova ospite di Guarienti ed attorno a cui ruotano i destini di tre uomini in costante competizione per carpirne le attenzioni.

Si tratta di una “commedia con delitto” nel classico stile farinettiano: godibilissima, piacevole e divertente. La trama poliziesca, seppur ben congegnata, soggiace ben presto alla notevole costruzione dei personaggi: nobili vedove, pedanti professori, svampiti accompagnatori e dispotiche matrone si alternano sul palcoscenico narrativo, in un concentrato di ironia davvero ben riuscito, che è in grado di strappare un sorriso anche al più serioso dei lettori.  
Destinato soprattutto agli amanti del giallo di stampo classico – se siete fan di Donato Carrisi passate oltre – La bella sconosciuta rappresenta un (sempre più) raro esempio di lettura amabile e coinvolgente.
Il linguaggio scorrevole, i dialoghi scoppiettanti e l'eccellente ambientazione sono ulteriori elementi che danno forza e consistenza al racconto, che si sviluppa in maniera lineare e convincente, facendoci annusare da vicino gli odori ed i tepori di un’estate piena di intrighi e di misteri.


Consigliato a: coloro che amano i gialli dalla solida impostazione classica, privi di sangue e di violenza, incentrati soprattutto sullo svolgimento dell’indagine e sull'ottima caratterizzazione dei protagonisti.


Voto: 7,5/10


Gio  

lunedì 16 dicembre 2019

I ragazzi della Nickel, Colson Whitehead


Oltre ad essere uno dei migliori scrittori statunitensi delle ultime generazioni, Whitehead è un vero e proprio paladino della lotta per i diritti civili delle persone di colore. Dopo lo straordinario successo di La ferrovia sotterranea - libro che gli è valso il Pulitzer e il National Book Award – l’autore ha scritto un nuovo romanzo che intende far luce su un'altra pagina oscura della storia americana. Rispetto all'opera precedente, però, la narrazione sembra appartenere più al realismo che  ai territori della fantasia.

Siamo nel 1963, in un momento storico in cui il movimento per i diritti civili sta prendendo lentamente piede all'interno della comunità di colore. Elwood Curtis è un ragazzino senza genitori che è stato cresciuto dalla nonna e che è rimasto affascinato dagli insegnamenti di Martin Luther King. In procinto di cominciare il college, un giorno accetta incautamente un passaggio in auto: errore fatale! Elwood viene rinchiuso in una sorta di riformatorio chiamato Nickel Academy, che si rivelerà un vero e proprio teatro degli orrori.

Come ben sappiamo, il percorso verso l’uguaglianza di tutti i cittadini è stato lungo e violento. Proprio negli anni in cui è ambientato il romanzo, infatti, l’America era un magma incandescente in cui si stavano gettando le fondamenta per dare vita ad un “nuovo mondo”: la fine della segregazione nelle scuole, il gesto di Rose Parks (che su un tram occupò un posto riservato ai bianchi) e le pesanti condanne dei militanti del KKK erano tanti piccoli passi del tragitto verso la legge per i diritti civili, che avrebbe  stabilita l’illegalità della discriminazione razziale.
Questo romanzo racconta una storia di disumano razzismo e di diritti negati in un’America attraversata dall'irresistibile vento del cambiamento; una vicenda fitta di crudeltà e di abusi di potere impuniti che si rivela un pugno allo stomaco persino per il più scafato dei lettori.
Purtroppo, però, sembra che Whitehead si sia fatto un po’ prendere la mano... il desiderio di denuncia arriva ben presto a prevalere sull'impianto narrativo, fagocitandosi un po’ tutto – descrizione di luoghi, caratterizzazione di personaggi e pathos espositivo – e rendendo piatto e didascalico l’intero svolgimento.
Nel complesso resta un encomiabile atto di accusa che merita di essere letto per la sua coerenza e la sua volontà di far emergere un dramma in cui vessazioni e crudeltà avevano il posto d’onore. Dall'autore, però, ci aspettiamo molto di più.


Consigliato a: coloro che amano le vicende di denuncia civile, che aprono uno squarcio sulle nefandezze della storia umana, ed a chiunque senta il dovere morale di affrontare l’ingiustizia con uno sguardo partecipato e sincero.


Voto: 6,5/10


lunedì 9 dicembre 2019

I milanesi ammazzano al sabato, Giorgio Scerbanenco


Questo è il quarto e ultimo romanzo - dopo Venere privataTraditori di tutti e I ragazzi del massacro - della fortunata serie imperniata su Duca Lamberti: un ex medico che, dopo essere stato radiato dall'ordine per aver praticato l'eutanasia su un malato terminale, si è trasformato in valente investigatore.
Come nei libri precedenti, ci troviamo al cospetto di un giallo “vecchio stile”, con personaggi ben disegnati, un trama semplice ma avvincente ed un’ambientazione milanese tipicamente fredda e nebbiosa.

Donatella Berzaghi è una ragazza bellissima che soffre di un grave ritardo mentale; il padre, al fine di proteggerla, la tiene segregata in appartamento, in cui può vivere circondata da bambole e personaggi della Disney.
Quando la giovane scompare improvvisamente nel nulla, l’uomo si rivolge alla polizia che affida l’indagine a Duca Lamberti. Il medico-investigatore si butterà alla frenetica ricerca di Donatella, arrivando a spingersi nei meandri più nascosti di una Milano nera e sudicia, in cui prosperano sfruttatori e case chiuse.

Giorgio Scerbanenco, come tutti sanno, è considerato il papà del giallo italiano: un cronista di straordinario  talento, capace come pochi altri di rappresentare in modo preciso e asciutto la realtà circostante.
La sua più grande abilità è stata quella di saper narrare le più nefande pulsioni della cosiddetta Milano bene, facendo ricorso ad uno stile crudo e diretto, lontano anni luce da qualsiasi concezione di “politicamente corretto”.
I milanesi ammazzano al sabato, nonostante sia stato pubblicato cinquant’anni fa, è ancora un libro molto attuale; un romanzo duro, che indaga in profondità nel mondo del malaffare evitando il buonismo di facciata e non risparmiando dettagli violenti.
La scrittura è rapida e lineare, in grado di avvolgere il lettore in una lenta spirale senza lasciarlo più andare. La descrizione minuziosa della Milano dei bassifondi, in cui prosperano  marciume ed afflizioni, è un ulteriore elemento che contribuisce a fornire realismo e consistenza ad una storia nera in cui si svolge la consueta battaglia tra il bene e d il male.


Consigliato a: chi ama il giallo d’atmosfera, intriso di profonde venature noir, ed a chiunque voglia fare un tuffo nella torbide e nebbiose atmosfere della Milano degli anni Sessanta.


Voto: 8/10



martedì 3 dicembre 2019

Meridiano di sangue, Cormac McCarthy


Sinceramente, non riesco a comprendere come uno scrittore del calibro di Cormac McCarthy non susciti lo stesso entusiasmo di altri autori famosi ma che, alla fine dei conti, si dimostrano molto meno dotati ed originali di lui (ogni riferimento agli ultimi due Nobel è puramente casuale).
Meridiano di sangue, oltre ad essere un grandissimo libro, è sicuramente uno dei romanzi più crudi  e violenti che mi sia mai capitato di affrontare (escludendo, per ovvie ragioni, ciò che rientra nel campo del thriller o dell’horror).

Ambientato a metà del diciannovesimo secolo nel vasto territorio che si estende tra il Messico e le regioni americane limitrofe, si svolge sullo sfondo di una natura descritta in maniera tutt’altro che comune e che sa dimostrarsi in ogni momento pericolosa e selvaggia.
Il protagonista è un quattordicenne – nel romanzo viene semplicemente chiamato “il ragazzo” – che sceglie di aggregarsi ad una banda di cacciatori di scalpi capeggiata dal temibile ed imponente Giudice Holden: una sorta di filosofo/guerriero che guida una masnada di derelitti, mezzosangue ed emarginati che lasciano ad ogni passaggio un’impronta di sangue, crudeltà e morte. Per il giovane, tale esperienza costituirà una vera e propria iniziazione alle violente leggi della frontiera.

McCarthy, con quest'opera, riscrive di fatto il mito del Vecchio West che in passato ci è stato spesso propinato in modalità nobile ed edulcorata. Cancella via gli aspetti più suadenti – l’amicizia virile, l’eroismo, la fratellanza tra gli uomini – per catapultarci nelle zone più tenebrose e putrescenti dell’animo umano, narrandoci uno straordinario apologo sull’individuo e la sua capacità di sopravvivenza. Tutti i personaggi descritti hanno un unico elemento che li accomuna: non conoscono alcuna pietà o misericordia, ma rivelano esclusivamente i loro peggiori istinti che li rendono impassibili e crudeli come le belve allo stato brado.
Romanzo epico, senza speranza, dalle forti connotazioni metafisiche, rivela tutto il talento di uno scrittore unico, capace di emozionare in qualsiasi istante: anche quando si limita a descrivere un bivacco desolato o una luce che si svela all’orizzonte.
La scrittura è fantastica! Sa essere di fuoco e di ghiaccio allo stesso tempo, supportata da uno stile unico che combina una prosa penetrante alla Faulkner con descrizioni di luoghi dal sapore quasi Shakespeariano.
Tra i personaggi si staglia inesorabilmente la figura del Giudice Holden: un essere contraddistinto da un’indole amorale, spietata e depravata, che  rappresenta una delle figure letterarie più memorabili che mi sia capitato di incontrare.



Consigliato a: coloro che vogliono rivivere il mito del Vecchio West affrontato in una maniera differente dal solito – ma probabilmente più vera e credibile - ed a chiunque desideri fare la conoscenza di un Gigante della letteratura contemporanea.



Voto: 8+/10



lunedì 2 dicembre 2019

L’ultima volontà, Roberto Perrone



Con il terzo episodio della serie dedicata all’ex colonnello Annibale Canessa, Roberto Perrone torna ai livelli che gli competono: il precedente - L’estate dei misteri, uscito lo scorso anno - appariva abbastanza scontato nel plot e con pochissimi guizzi; con L’ultima volontà, invece, lo scrittore genovese si riscatta dal mezzo passo falso e costruisce un thriller adrenalinico ed avvincente, come neanche gli americani riescono più a fare. 

Un ex brigatista in punto di morte rivela una scomoda verità: non è stato lui l’artefice della strage per cui ha scontato lunghi anni in prigione. Questa confessione “al contrario” dimostra un fatto incontestabile: i veri assassini sono ancora liberi e, attraverso continui depistaggi, hanno occultato in maniera subdola ed arrogante la realtà dei fatti.
Ma Canessa non è un uomo che si lascia intimidire dalle avversità, perciò darà il via ad un'indagine complessa e pericolosa, che lo condurrà ad esplorare i meandri più oscuri della storia del nostro paese. Si troverà così alle prese con una vicenda drammatica, che trae origine dagli eventi della Resistenza estendendosi fino ai giorni nostri, attraverso un percorso contrassegnato dal sangue di persone innocenti.

Perrone ha ambientato il romanzo sullo sfondo di un'Emilia nebbiosa e crudele: una regione che assurge al ruolo di co-protagonista al fianco di personaggi a cui, libro dopo libro, si finisce con l’affezionarsi.
La trama è tesa, suggestiva e ricca di sfaccettature. L’idea di costruire una storia nera, capace di coniugare in un unico contesto gli episodio della Liberazione e gli anni di piombo, è assolutamente degna di nota.
Con uno stile essenziale, limpido e coinvolgente, l’autore catapulta il lettore in una vicenda che – pur essendo di fantasia -  rispolvera uno dei periodi più difficili della nostra storia e li rende attuali e comprensibili anche per coloro che non li hanno vissuti in prima persona.
L’unico difetto – a mio personalissimo parere – è l’eccessiva “mitizzazione” del protagonista: “Carrarmato” Canessa, intuitivo come Sherlock Holmes e più indistruttibile di Rambo e Terminator messi insieme, è un personaggio non molto credibile… e sappiamo benissimo che, se sei immune da difetti, alla fine risulti antipatico al mondo intero (o quasi).


Consigliato a: chi ama i thriller avvincenti, che scorrono rapidi e trancianti come un proiettile e che si divorano alla velocità della luce, ed a chiunque nutra ancora dei dubbi sul fatto che il noir di casa nostra, talvolta, possa risultare più adrenalinico di quello d’oltre oceano.

Voto: 7,5/10    



martedì 26 novembre 2019

Il viaggio delle bottiglie vuote, Kader Abdolah


Prosegue la mia personalissima scoperta di Kader Abdolah, un autore con cui è stato “amore a prima vista”. In questo romanzo sono abbozzati argomenti importanti, che verranno esplicitati ed approfonditi nei libri successivi (in particolare in Un pappagallo volò sull’Ijssel): sto parlando del tema dell’integrazione, molto dibattuto ai giorni nostri, che viene analizzato all’interno di un paese di antica emigrazione ma che è anche meta di nuovi arrivi.

Bolfazl, il protagonista, è un esule iraniano che si è rifugiato nei Paesi Bassi. Nel suo percorso verso l’integrazione è aiutato dal vicino di casa René, un artista omosessuale separato e con una figlia. Alla fine dei conti, l'emarginazione dell’esule e quella del diverso risultano molto simili; per Bolfazl, però, le difficoltà incontrate nell’essere accettato diventeranno un impulso notevole verso la costruzione di una nuova vita mentre la lingua olandese costituirà un utile grimaldello con cui scardinare quel portone che lo separa dal nuovo mondo.

Il viaggio delle bottiglie vuote racconta la storia di una lotta: quella di un profugo che cerca di reinventare la propria esistenza in Olanda: una nazione che, in questo contesto, diventa un vero e proprio simbolo dell’intero mondo occidentale. Descritta  attraverso la prospettiva di chi è nato in un paese lontano, la vicenda rappresenta uno sguardo d’insieme sul mondo contemporaneo, in cui si sviluppa quel conflitto latente tra indigeni ed immigrati.
Abdolah riesce a raccontare lo stato d’animo di un uomo che si ritrova ad essere “estraneo” non solo per via dell’etnia e del paese d’origine, ma anche per il fatto di doversi confrontare con un sistema di valori completamente diverso se non radicalmente opposto a quello a cui è stato abituato.
La frustrazione dell’esule senza patria, solo con i propri valori, ci fa capire come l'emarginazione sia uguale in ogni posto del mondo; il diverso, talvolta, riesce a farsi accettare usando le stesse armi del "nemico” (in particolare la lingua) e la capacità di adattamento è una dote fondamentale per non sentirsi esclusi/segregati/estraniati.
Non è ancora il miglior Abdolah – quello che emergerà con le successive opere quali La casa della Moschea e Uno scià alla corte d’Europa – ed alcuni passaggi del romanzo appaiono, a tratti, frettolosi e senza un approfondimento che probabilmente sarebbe stato necessario. 
Il libro, al di là di tutto, è ben scritto, supportato da una narrazione asciutta e diretta che sa rivelarsi nel contempo lirica e suadente.


Consigliato a: coloro che amano i romanzi imperniati su temi attuali e importanti come quello dell’immigrazione ed a chiunque ami le vicende che raccontano la storia di un percorso di rinascita individuale.


Voto: 7/10


venerdì 22 novembre 2019

L'anno dei misteri, Marco Vichi


Prima di entrare nel dettaglio, mi sembra importante dedicare un po' di attenzione alla dedica indicata all'inizio del romanzo:
Al caro amico Andrea Camilleri, magnifico e gentile cantastorie, che amava il commissario Bordelli.
Credo che non ci sia bisogno di alcun commento: queste poche parole rappresentano un sincero attestato di stima e di amicizia da parte di Vichi allo Scrittore (la S maiuscola è d'obbligo) che ha dato il via alla grande stagione del giallo di casa nostra. Ma ora veniamo a noi...

L'ottavo romanzo che ha come protagonista il Commissario Bordelli mantiene in pieno le promesse (e come poteva essere altrimenti?) Vichi si rivela fior fior di narratore, proseguendo il racconto della lenta ma progressiva evoluzione del suo personaggio. Ex soldato del San Marco, straordinario poliziotto, amante del buon cibo e dei bei libri, Franco Bordelli è un uomo molto attento allo "spirito dei tempi" ed è ben conscio di vivere un periodo di rapida ma inesorabile trasformazione socio-politica. Allo stesso tempo, l'autore ci parla della Firenze di fine anni Sessanta: una città che ormai non c'è più, completamente diversa da quella che conosciamo, immersa in un'atmosfera di rivolta e cambiamento.

Siamo nel gennaio del 1969. Mentre gli italiani sono seduti davanti al televisore per assistere alla finale di Canzonissima, Bordelli deve recarsi sul luogo di un cruento delitto. Una ragazza è stata violentata ed uccisa, proprio mentre andava in onda la sigla della trasmissione...
Sarà capitato anche a voi / di avere una musica in testa / sentire una specie di orchestra / suonare suonare suonare suonare / zum zum zum zuuum zum... 
Da quel momento in avanti, le giornate del commissario si complicheranno. Oltre al caso della ragazza uccisa, dovrà dedicarsi alla risoluzione di altri due enigmi: dovrà aiutare un antico compagno di scuola che teme per la propria incolumità fisica e proseguirà la caccia ad un assassino seriale che sta facendo strage di prostitute nei paesi del circondario fiorentino.

Come ben sappiamo, per Marco Vichi il giallo rappresenta un grimaldello per penetrare lo spirito di un'epoca lontana; un periodo in cui colloca perfettamente i suoi personaggi al fine di raccontarne le vicende individuali, incentrate su uno sfondo storico realistico e ben definito.
Per l'autore toscano ciò che conta non è tanto il "delitto" in sé, ma le varie storie che gli gravitano attorno. Ci troviamo così immersi in una narrazione avvincente, piena di eventi, di situazioni e di misteri, che è al tempo stesso un viaggio in un mondo letterario (alla scoperta dell'autrice Alba de Cespedes), artistico (lungo le strade gravide d'arte del capoluogo toscano) e, perché no, culinario (con sedute a tavola al cospetto di piatti prelibati).
Romanzo dopo romanzo - dicevamo prima - il commissario è profondamente cambiato. Le esperienze umane e lavorative hanno profondamente inciso sulla personalità di Bordelli e, accostandoci alla sua figura, percepiamo fino in fondo i segni del tempo che passa, con il vento della storia che soffia incessante sulla sua esistenza e su quella di coloro che gli stanno attorno.  
La vera abilità di Vichi si rivela soprattutto nel tratteggiare quei primissimi mesi del 1969: un anno fondamentale dal punto di vista politico e sociale, che cambierà per sempre la storia... non solo del nostro paese, ma del mondo intero. 


Consigliato a: coloro che amano i gialli pieni di atmosfera, con personaggi realistici e ben definiti, che riescono a raccontarci lo spirito di un'epoca facendoci percepire odori, sapori e sensazioni lontane nel tempo ma mai sopite.


Voto: 7,5/10


martedì 19 novembre 2019

La donna mancina, Peter Handke


Se questo è il capolavoro di Peter Handke… siamo fritti.
Dopo la consegna del Premio Nobel, ho deciso di andare alla scoperta di questo autore austriaco che conoscevo già come ottimo sceneggiatore – Il cielo sopra Berlino di Wenders è opera sua – ma di cui ignoravo del tutto l’attività di scrittore. Purtroppo La donna mancina non mi ha per niente esaltato: l’ho trovato un romanzetto qualunque, pura acqua fresca che scivola via senza lasciare traccia, e pertanto lontano anni luce da quell’opera memorabile che mi aspettavo da un narratore insignito della massima onorificenza in campo letterario.
Partiamo, come di consueto, dalla trama…

Marianne è sposata con Bruno, direttore vendite di una ditta di porcellane, ed è madre di un ragazzino di otto anni di nome Stefano. Quando il marito fa ritorno a casa, dopo una trasferta dl lavoro in Finlandia, le dichiara il proprio amore assoluto e totale. Lei, del tutto inaspettatamente, gli risponde invece di volersi separare.
La donna, restando ferma sulle sue posizioni, si dedicherà ad un’esistenza solitaria: riprenderà il lavoro di un tempo in campo editoriale, affrontando la vita racchiusa nel proprio eremo e disdegnando nuovi legami sociali e sentimentali.

Si tratta di un romanzo breve – una novantina di pagine in tutto - abbastanza tradizionale per quanto concerne la struttura e lo sviluppo della trama.
Handke utilizza la vicenda di Marianne per raccontare una storia di solitudine auto-inflitta, che flirta da vicino con l’apatia, attraverso un pot-pourri di microeventi quotidiani che vengono accostati, talvolta, senza troppo rispetto per il continuum narrativo.  
Con uno stile fotografico, teso ad inculcare nel lettore alcune immagini nitide e ben definite, l’autore abbraccia un afflato minimalista, senza troppi guizzi o particolarità stilistiche.
Il tutto puzza un pochettino di artefatto e di stantio: pare di assistere ad una piece-teatrale un po’ bislacca, priva di qualsiasi trasporto emotivo/passionale, con cui Handke cerca di descrivere la battaglia di una donna contro la consuetudine, nel tentativo di sganciarsi dal proprio ruolo di moglie/madre per inseguire una nuova identità.
I dialoghi appaiono stringati, quasi schematici; le descrizioni di luoghi ed ambienti sono ridotte all’osso e piuttosto insignificanti.
Ala fine la domanda sorge spontanea: che cos’hanno fatto di male all’Accademia del Nobel scrittori grandissimi come McCarthy, DeLillo, Ford e Marias, senza tralasciare la buonanima di Philip Roth, per vedersi preferire un autore che non si distingue certo per originalità o brillantezza letteraria? Probabilmente non lo sapremo mai… 


Consigliato a: coloro che vogliono fare la conoscenza dell'ultimo Premio Nobel ed a chiunque apprezzi la narrazione di stampo sintetico e minimalista.


Voto: 5/10



domenica 17 novembre 2019

La misura del tempo, Gianrico Carofiglio


La misura del tempo è il sesto romanzo che Gianrico Carofiglio - ex magistrato ed ex parlamentare - dedica alla figura dell’avvocato Guido Guerrieri: un personaggio riluttante e melanconico, stropicciato ed affascinante, che si muove in una Bari in cui coesistono ambienti raffinati e luoghi underground.
Dopo aver accantonato il personaggio per qualche libro, lasciando spazio al maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio, Carofiglio ci ripropone un Guerrieri un po' invecchiato ed alle prese con un caso quasi impossibile, che lo spingerà a confrontarsi con vicende di quasi trent'anni prima.

In un tardo pomeriggio di fine inverno, Guido Guerrieri riceve la visita di Lorenza, una sua vecchia fiamma. La donna è profondamente cambiata: l'affascinante e scintillante creatura che aveva conosciuto un tempo non esiste più; la persona che si ritrova davanti è scialba, opaca, vittima inerme del trascorrere dei lustri. 
Lorenza è arrivata da Guido in cerca di aiuto: suo figlio Iacopo è stato condannato per omicidio volontario ed è detenuto in carcere. 
Pur non essendo del tutto convinto, l'avvocato Guerrieri accetta ugualmente di dedicarsi alla difesa del ragazzo. Ha così inizio un nuovo percorso processuale, che si rivelerà tormentato e pieno di contraddizioni.

Il passato è una terra straniera si intitolava uno dei primi romanzi di Gianrico Carofiglio. Mai espressione potrebbe risultare più calzante per descrivere la trama di questo ultimo libro: un continuo gioco di rimandi tra presente e passato, in cui il peso gravoso dei ricordi diventa quasi il metro ideale per misurare lo scorrere implacabile del tempo. I capitoli in cui viene rappresentato il presente - dedicati alla sfida processuale - sono intervallati da altri ambientati ventisette anni prima, in cui l'avvocato rivive il proprio passato ed il contrastato rapporto con Lorenza.
Carofiglio coglie l'occasione per condurre il lettore in un viaggio nei meandri della giustizia di casa nostra, sottolineando per altri versi la provvisorietà delle umane vicende.
Purtroppo, le eccessive digressioni legali/giudiziarie appesantiscono un poco il racconto, ed il codice di procedura penale - gravido di tecnicismi - prevale un po' troppo sulla narrazione, non rendendo affatto agevole la lettura (almeno per i non addetti ai lavori).
Il romanzo si salva grazie alla buona scrittura e, soprattutto, all'ottima costruzione dei personaggi: uomini e donne realistici e nostalgici, costretti volente o nolente a fare i conti col tempo che vola via.


Consigliato a: coloro che amano i legal-thriller all'italiana, gli accesi confronti tra accusa e difesa nelle aule di tribunale e l'esplorazione delle contraddizioni che si annidano nella giustizia di casa nostra. 


Voto: 6,5/10


Gio        

venerdì 15 novembre 2019

Le sere, Gerard Reve


Gerard Reve, nonostante sia poco noto in Italia, è considerato uno dei tre grandi della letteratura olandese del secondo Novecento (gli altri due sono Willem Frederik Herman e Harry Mulisch). Scrittore atipico, provocatorio e controverso, nel 1947 - appena ventitreenne - pubblicò questo romanzo che all'epoca divise critica e pubblico ed è oggi giudicato come uno dei capolavori della narrativa continentale.

Siamo ad Amsterdam, nel secondo dopoguerra. Frits van Egters, il protagonista, è un giovane impiegato che trascorre il tempo libero girovagando per le strade della capitale, raccontando storielle di humour nero e crogiolandosi al fuoco della propria ruvida ed insistente vena ironica. 
La sua quotidianità è uno sforzo titanico con cui il ragazzo cerca di dare un senso alle lunghe "sere", che fanno seguito a giornate inutili vissute tra la noia del lavoro in ufficio ed il sofferto rapporto con i genitori. La sua esistenza, che si srotola tra incontri con gli amici, dialoghi difficili con padre e madre e momenti al night e al cinematografo, si trasforma a poco a poco in una sorta di "black comedy" che finisce per risucchiarlo in una spirale da cui non c'è via di uscita.

Si tratta di un'opera intrisa di un umorismo grottesco e liberatorio, che diventa lo specchio di quella generazione cresciuta e maturata nel corso del secondo conflitto mondiale. 
Le paure neanche troppo recondite di Frits - per il proprio futuro, per la vecchiaia e per l'inizio di un declino fisico che il giovane crede di osservare nei suoi amici più intimi - sono il perno attorno cui ruota l'intera narrazione. 
A volte sembra quasi di impantanarsi in una specie di loop - vista la reiterata ripetizione di gesti e stati d'animo del protagonista - ma questa è solo apparenza: credo che la volontà di Reve sia quella di operare una destrutturazione del tempo fisico che concerne la vita umana e di riadattarla in una sorta di schema in cui le ore produttive scivolano via in una manciata di righe mentre il tempo libero diventa un buco nero da riempire.  
L'indolenza di Frits, la sua noia e la sua assoluta mancanza di sessualità diventano così lo strumento per parlare del "niente": un nemico che ostacola qualsiasi cambiamento e che permea di sé ogni singola cosa che sta attorno. Il protagonista, con la sua indole dissacrante e declamatoria, cerca in ogni modo di liberarsi dalle pastoie di una vita piena di tedio ed impazienza: distrugge le certezze di coloro che lo frequentano, coinvolge i genitori in discussioni al limite dell'assurdo, utilizza le parole come frecce acuminate per scalfire un silenzio assordante. Continua però a vagare come un sonnambulo in un'esistenza che è come una carrozza impazzita di cui fatica ad afferrare le redini.


Consigliato a: coloro che vogliono scoprire uno scrittore da noi poco noto ma che in patria è considerato tra i grandi ed a chiunque voglia farsi avvolgere da una prosa ossessiva e circolare che come un metronomo dal ritmo irregolare scandaglia il passare del tempo. 


Voto: 7,5/10






martedì 12 novembre 2019

Tutti i miei errori, Dennis Lehane


Con questo romanzo si conclude la trilogia della famiglia Coughlin, che Dennis Lehane aveva inaugurato con Quello era l'anno e proseguito con La legge della notte (vincitore di un Edgar Award). Si tratta di tre romanzi fortemente connessi tra loro - anche se ognuno può essere letto autonomamente - ambientati sullo sfondo della turbolenta storia americana tra il primo e il secondo conflitto mondiale.

Siamo nel 1943. Mentre divampa la guerra, la mafia statunitense sta vivendo un momento particolarmente fortunato. L'ex boss Joe Coughlin, diventato consigliere della famiglia Bartolo, gestisce una serie di attività in Florida, a Bo­ston ed a Cuba, facendo da intermediario tra il crimine organizzato e l'alta società. 
Sono passati sette anni dal tragico decesso della moglie Graciela, uccisa in un agguato, e Joe si è rifatto una vita insieme al figlioletto. 
Dietro il successo, però, i fantasmi del passato continuano a premere con insistenza: c'è qualcuno che lo ha preso di mira e vorrebbe vederlo morto. Ed il tempo a disposizione per capire chi si nasconda dietro alle minacce è davvero ridotto all'osso.

Dennis Lehane ha costruito una saga criminale davvero notevole, piena di personaggi ben disegnati e con una trama che non concede un attimo di tregua. Il genere "gangster book" diventa, tra le mani dell'autore, una perfetta metafora del capitalismo sfrenato e ci fa capire in quale spaventoso mostro potrebbe trasformarsi l'economia americana in assenza di freni o regolamentazioni.
La parabola di Joe Couglin dimostra come il potere assoluto, nella realtà dei fatti, sia un colosso dai piedi d'argilla: nel momento in cui qualcuno si trova ai vertici, c'è già qualcun altro che trama nell'ombra per cercare di scalzarlo dal posto di comando. 
I rapporti umani e famigliari vengono scandagliati in profondità, attraverso un percorso che si fa pagina dopo pagina sempre più teso, amaro e crudele. Facendo leva su una scrittura pregevole, capace di sostenere fino in fondo l'evoluzione della trama, Lehane ci regala un libro avvincente e pieno di colpi di scena, che rappresenta un convincente spaccato di un'America lontana nel tempo ma i cui riflessi si riverberano ancora sui giorni nostri.
Un plauso - meritatissimo - va al traduttore italiano, Mirko Zilahy, che è riuscito a restituirci in maniera intatta e precisa la prosa di uno dei più grandi autori del thriller/noir contemporaneo.


Consigliato a: coloro che amano i thriller/noir ben costruiti, storicamente fondati e capaci di tener desta l'attenzione fino alla fine ed a chiunque apprezzi le storie di gangster, specchio segreto di un'America che ormai non c'è più.


Voto: 7,5/10





domenica 10 novembre 2019

Che cos'è la lettura... per me


Che cos'è veramente la lettura?
È pensiero o divertimento? Riflessione o mero intrattenimento?
Un libro deve stimolare, provocare e pungolare colui che lo tiene in mano o deve essere relegato nel novero dei semplici passatempi come una partita a bowling o una serata in un pub?
Sono anni che me lo sto chiedendo, senza però riuscire a darmi una risposta precisa.
Anche perché nella mia vita di lettore-seriale, bibliofilo e divoratore di romanzi, ho quasi sempre applicato il ferreo principio dell'alternanza. Ad un libro "serio" (non è che gli altri non lo siano, ma durante la loro lettura lo spirito ludico prevale su qualsiasi intento di ponderazione) faccio sempre seguire un libro per rilassarmi/divertirmi... e via così all'infinito, senza mai trasgredire questa piccola regola che mi sono auto-imposto. 
Forse penserete che sono pazzo - e magari avrete anche un po' di ragione - ma sono fermamente convinto che adagiarsi su un genere capace di provocare sempre le medesime sensazioni non sia un atteggiamento che invoglia alla lettura continuativa. Questa considerazione non è proprio campata in aria, ma deriva da alcune sperimentazioni che - più o meno inconsciamente - ho messo in atto nel corso degli anni.
Provate a leggere 10 romanzi gialli (o di avventura, o di fantascienza... fate voi) consecutivamente e ditemi se non vi viene un senso di appagamento totale, paragonabile a quello di colui che si è pappato una cena pantagruelica e non è in grado di mandare giù nel gargarozzo neanche un ultimo cucchiaino di sorbetto!
D'altro canto, provate a spararvi uno dopo l'altro 10 tomoni di autori grandissimi ma allo stesso tempo difficili e che, di conseguenza, richiedono un'attenzione e un impegno non paragonabile a quello della letteratura d'intrattenimento!


Ecco... avete capito dove volevo arrivare!
Lo ripeto per l'ennesima volta: l'alternanza, l'alternanza, l'alternanza...
...è per me l'unica soluzione. Io ho optato per questa scelta con esiti notevoli. Sono circa quarant'anni che leggo - eh sì, sono ormai un vecchierello cinquantaduenne - e non mi è mai capitato di patire di quel male oscuro e fastidioso universalmente conosciuto come "blocco del lettore".
Se mangiassi pesce tutti i giorni, finirei prima o poi con l'odiare visceralmente i piatti a base di fauna marina. La stessa cosa accadrebbe se la portata principale del mio pasto quotidiano fosse sempre a base di carne. Cambiando quotidianamente menù, invece, difficilmente correrei il rischio di stancarmi: salvaguarderei la passione per il cibo e la gioia sublime di ingurgitarlo a più non posso. 
Questa metafora, ovviamente, calza alla perfezione con il mio animo di divoratore seriale di libri, onnivoro e insaziabile. Amo moltissimo leggere - credo che sia uno dei grandi piaceri della vita - ma voglio gustare piatti sempre diversi l'uno dall'altro. E così ad un romanzo del grande Philip Roth posso far seguire un giallo di casa Sellerio; dopo un'opera di un Nobel come Mo Yan posso scegliere di dedicarmi ad un thriller di Michael Connelly.


Ogni tanto ci rimango male quando - dopo aver postato il commento ad un noir italiano - qualche lettore un po' troppo borioso e saputello mi apostrofa dicendo: "non leggo questa robaccia... c'è ben altro in giro". D'altra parte, non mi fa certo piacere leggere commenti alle mie recensioni di libri di Pamuk, Franzen o Saramago del tipo: "ma come fai a leggere roba così pallosa?
Ognuno è libero di fare ciò che vuole e non vorrei che qualcuno prendesse questo mio sfogo/confessione come la farneticazione solipsistica di un Signor Sconosciuto che pretende di possedere la verità assoluta.
Leggo sempre un centinaio di volumi l'anno, equamente divisi tra letteratura di qualità e letteratura di evasione (anche se - bisogna ammetterlo - esistono tantissime opere che appartengono ad entrambe le categorie), e continuo il mio percorso senza mai aver avuto un cedimento o un rilassamento. Divorare un romanzo dietro l'altro mi piace troppo; molto spesso mentre sto voltando l'ultima pagina di un libro pregusto già la scelta del successivo. Ed il fatto che, dopo una cena sapida e sostanziosa, ci sia la possibilità di gustarsi un fresco e rigenerante dessert... bé, ritengo che sia una cosa meravigliosa.

Fatemi sapere che cosa pensate di ciò che ho scritto... se condividete il mio pensiero o se pensate che abbia messo giù solo un'accozzaglia di fesserie. Sono aperto ad ogni critica e ad ogni confronto.
Ciao a tutti...


Gio