So
benissimo che con questo commento mi attirerò addosso gli strali di gran parte
dei lettori. E sono consapevole del fatto che quest’opera
sia considerata da molti come uno dei capolavori assoluti del Novecento.
Purtroppo, se devo essere sincero fino in fondo, Cent’anni di solitudine balza di diritto ai vertici della classifica delle letture più noiose e sgradevoli che mi sia capitato di affrontare.
Nonostante
abbia grande rispetto per Marquez – ho amato moltissimo Cronaca di una morte annunciata e L’amore ai tempi del colera – questo libro mi è risultato ostico al
limite della sopportabilità ed ho pure corso il rischio di abbandonarlo (cosa
che non mi capita da una decina d’anni).
La
trama credo che la conosciate tutti. Vengono narrate le vicende di ben sette generazioni
della famiglia Buendía il cui capostipite - José Arcadio - fondò alla fine del
XIX secolo la (immaginaria) città di Macondo. La storia è raccontata con uno stile che vorrebbe essere sontuoso ma
che risulta tedioso e soporifero. Compito del romanzo sarebbe quello di narrare
un universo di solitudini incrociate, dove si susseguono i destini ineluttabili di una famiglia.
“È come se il mondo continuasse a girare in
tondo” dice la capostipite Ursula, ad un certo punto. Il fatto che la
storia si ripeta – se questo voleva essere il messaggio più recondito dell’opera
- non è poi quella grossa novità: basterebbe sfogliare la Teoria dei periodi politici di Giuseppe Ferrari (pubblicata cent’anni
prima) per capire che tale ipotesi era già stata messa in campo ed
adeguatamente dissezionata.
Più
che un romanzo, sembra di leggere quattrocento pagine di “sinossi” abbozzata e
mal articolata. D’altra parte, se Marquez intendeva scrivere la storia di sette
generazioni di una famiglia sudamericana,
doveva dedicarci parecchie pagine in più. L’assenza di distinzione tra dialoghi,
narrazione e descrizioni dà proprio l’idea dell’incompiutezza della trama,
fornendo l’apparenza di un liofilizzato di libro (un “bignami” di un’opera
mastodontica che non è mai esistita) più che di un qualcosa di esaustivo e
totale.
I
personaggi sono tagliati con l’accetta e si succedono generazione dopo
generazione senza lasciare traccia memorabile del loro passaggio. Il fatto che ricorrano
sempre gli stessi nomi – padri, figli, nipoti, bis-nipoti e così via si
chiamano tutti Arcadio o Aureliano – complica tremendamente le cose: manco con
un albero genealogico della famiglia Buendía a portata di mano ci si
raccapezza.
La narrazione procede per accumulo ad oltranza di eventi sgangherati e confusionari, che si mescolano, si intrecciano e talvolta si ripetono, rischiando di sconfinare nella farragine più assoluta.
Ed
alla fine la domanda sorge spontanea: com’è possibile che Cent’anni di solitudine abbia avuto tale riscontro a livello
internazionale mentre libri di caratura nettamente superiore – cito a mero titolo
di esempio Grande seno, fianchi larghi di
Mo Yan e Gente indipendente di Halldor
Laxness – siano praticamente sconosciuti alla gran parte dei lettori?
Per
me è un mistero assoluto. D’altra parte essendo il sottoscritto un umile
lettore – e non un critico professionista, austero militante e severo (cit.
Guccini) - non ho la presunzione di possedere la verità assoluta.
Probabilmente
si tratta davvero di un capolavoro e sono io ad essere un cafone-ignorante che
non ha compreso l’enorme levatura di questo romanzo. Mi conforta comunque il
parere di Pierpaolo Pasolini che, all’uscita del libro, lo massacrò senza pietà
definendolo come il “romanzo di uno
scenografo o di un costumista, scritto con grande vitalità e spreco di
tradizionale manierismo barocco latino-americano, quasi ad uso di una grande
casa cinematografica americana.” Come dargli torto!?
Consigliato
a: coloro che vogliono affrontare un’opera ritenuta da molti – ma non da tutti –
come uno dei capolavori del Novecento ed a chiunque voglia farsi l’idea di che
cosa sia stato realmente il “realismo magico”.
Voto: per questa volta... passo oltre.
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