Può
un’opera letteraria essere allo stesso tempo bellissima e noiosa, innovativa e
monotona, suadente ed urticante? Questa sensazione l’ho provata leggendo Il mio nome è Rosso, uno tra i libri più
celebri ed acclamati del Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk.
Si
tratta di un romanzo “a più voci”, dalla struttura complessa, che si articola in
un susseguirsi di capitoli che vengono raccontati dal punto di vista di
personaggi diversi, fra cui figura anche Nero: un ex miniaturista, tornato ad
Istanbul dopo dodici anni di lontananza, che cova dentro di sé un amore
smisurato per la giovane vedova Şeküre.
Siamo
nella Istanbul del 1591. Tra i miniaturisti che lavorano nel Palazzo del
Sultano – il cui scopo è quello di "vedere" ciò che disegnano con gli
occhi di Allah - si nasconde un crudele
assassino. Nero è disposto a qualsiasi cosa per smascherare il criminale, anche
a mettere in gioco la propria vita. Perché, in caso di fallimento, gli sarebbe
precluso per sempre il futuro che sogna di trascorrere accanto alla donna che
ama.
Sullo
sfondo, assistiamo ad un vero e proprio conflitto tra la tradizione ottomana, contraddistinta
da un implacabile fanatismo, e l'ammirazione che alcuni personaggi – tra cui lo
stesso Nero - provano per i dipinti della scuola veneziana e, di riflesso,
anche per, per l'occidente cristiano
Quest’opera
risulta sicuramente memorabile per quanto concerne la struttura, la polifonia
e, soprattutto, per la straordinaria ambientazione in una Istambul fredda e nevosa alla fine del sedicesimo secolo. Pamuk è riuscito,
con il suo stile perfetto ed evocativo, a trasmettere il preciso ritratto di
un'epoca e della sua cultura, dipingendo i dilemmi filosofici, iconografici e religiosi di un mondo ormai al tramonto.
Purtroppo,
a tratti, il romanzo risulta pesante, monotono ed ossessivamente descrittivo: i
riferimenti storici si accumulano, le pagine in cui vengono descritti i lavori dei
vari miniaturisti sono eccessive e, talvolta, pare che l’autore diventi preda
di un’ossessione morbosa e maniacale per il dettaglio.
Personalmente,
preferisco il Pamuk che racconta la Istanbul di oggi: quello di La stranezza che ho nella testa e Il museo dell’innocenza, tanto per
intenderci. Nulla toglie, però, alla grandezza stilistica e formale di questo mosaico
difficile ed elitario, in cui è facile perdersi ma – allo stesso tempo –
risulta bellissimo e sodisfacente ritrovare la strada.
Consigliato a:
coloro che non hanno paura di intraprendere un percorso difficile e per
chiunque abbia il desiderio di immergersi nella cultura e nella storia di
un’epoca lontana, riprodotta attraverso una scrittura elegante e perfetta.
Voto:
7/10
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